Bernardo
Lanzetti, la voce potente del rock
di Agnese
Priorelli
«La musica
dovrebbe andare contro il sistema, oggi invece vale più il personaggio che le
canzoni che canta. La musica non ha più valore».
Lo abbiamo incontrato a Castiglione
del Lago – a Palazzo Pantini Nicchiarelli – in un caldo pomeriggio d’estate. Bernardo Lanzetti, la migliore voce rock degli
anni Settanta, dal 2014 vive in Umbria sulle rive del lago Trasimeno: «Mia
moglie ha deciso di vivere qui» ci confessa. Seduti su un divano facciamo
una bella chiacchierata, ripercorrendo la sua carriera di cantante progressive
rock – negli Acqua Fragile, nella Premiata Forneria Marconi e da solista – e
bacchettando il mondo della musica di oggi. Tra una domanda e l’altra c’è
spazio anche per degli intermezzi musicali: è un piacere ascoltare la sua voce
ancora potente e gli acuti che nella stanza risuonano alla perfezione. «Ho
ancora la miglior voce in circolazione. Non lo dico io, ma i tecnici delle sale
di registrazione» commenta orgoglioso.
Come mai ha deciso di vivere in
Umbria?
Non l’ho scelto io, ma mia moglie.
Frequentavamo Castiglione del Lago già nel 2010, era la nostra base quando
partecipavamo a eventi di progressive rock nel Centro Italia. Poi siamo tornati
diverse volte e nell’aprile del 2014 abbiamo deciso di trasferirci.
Ci racconti brevemente – soprattutto
per i più giovani – la sua carriera.
Cercherò di essere breve, ma sarà
difficile! Ho iniziato a cantare da bambino nel coro della chiesa, spesso mi
capitava di cantare da solo, inventandomi le parole. Poi sono andato in America
con una borsa di studio e lì ho respirato musica ovunque; nella famiglia che mi
ospitava c’era un ragazzo che faceva – e fa tuttora – il musicista, quindi per
me è stato abbastanza facile avvicinarmi a questo mondo. Tornato in Italia ho
proseguito su questa strada e a 17 anni mi è cambiata la voce in meglio: la mia
prima band è stata gli Acqua Fragile – da alcuni anni ci siamo riuniti – poi
sono passato alla Premiata Forneria Marconi, con i quali ho debuttato a Tokyo e
in tante città del mondo. Lasciata la PFM ho intrapreso una carriera da
solista, durante la quale ho inciso quattro album; poi mi sono dedicato al
teatro, all’elettronica e a diverse sperimentazioni musicali. Ho scritto pezzi
per Loredana Bertè e Ornella Vanoni.
Meglio fare il cantante in un gruppo o
è meglio fare il solista?
Io sono nato con l’idea e la voglia di
cantare in un gruppo. I gruppi oggi funzionano poco perché sono troppo costosi:
portare in giro 5 persone è decisamente dispendioso, è più conveniente una
persona sola con musica registrata. Non a caso i gruppi ancora attivi sono nati
30, 40, 50 anni fa.
Quali sono stati i cantanti o i gruppi
che hanno influenzato la sua carriera?
Ce ne sono tantissimi. Ray Charles è
uno di loro, è stato forse il mio primo maestro. Ho sempre amato i cantanti dei
gruppi: dai Beatles ai The Rolling Stones, fino agli Eagles e gli U2. Nei
gruppi il cantante non è impegnato solo nel cantare una canzone, ma nel cantare
una parte della composizione. Devo dire che ho avuto solo modelli stranieri,
non ho nessuna ispirazione italiana. Quando ero bambino ascoltavo Tony Dallara
(ride!), ma non ha certo ispirato il mio percorso artistico.
Dal 1975 al 1979 è stata la voce della
PFM: ci racconti un aneddoto legato a quel periodo.
Ce ne sono tantissimi. Forse il più
divertente è quello del mio arruolamento. Quando mi hanno chiesto di andare a
cantare con loro ho preso del tempo per pensarci e loro si sono offesi, mi
hanno tolto il saluto e hanno contattato Ivan Graziani, che però ancora non era
il cantautore che oggi tutti conosciamo. Mi hanno richiamano dopo sei mesi e
sono entrato a far parte del gruppo a tre giorni dall’incisione del disco: le
mie tonalità erano altissime – lo sono ancora oggi – così ho fatto il provino
cantando con un cuscino davanti alla bocca per paura di infastidire i vicini di
casa.
A tal proposito è stata definita la
«migliore voce rock degli anni Settanta»: questa definizione la rispecchia?
Io penso di esserlo tuttora! (scherza)
Non lo dico io, ma i tecnici in sala di registrazione. Io dopo una, due, tre
prove sono pronto per cantare, non mi occorre tanto tempo per prepararmi. Sono
cosciente del mio valore e conosco a memoria tutti i pezzi del mio repertorio.
Ho letto che i Genesis, dopo aver
perduto Peter Gabriel, avevano preso in considerazione l’ipotesi di invitarla a
far parte della band: è vero? L’hanno mai contattata?
L’ho saputo anni dopo. All’epoca non
mi fu detto nulla. Steve Hackett, chitarrista dei Genesis e mio amico, in anni
recenti ha dichiarato in un’intervista che mi avevano preso in considerazione
per entrare nella band. Ecco, è così che l’ho scoperto.
Avrebbe accettato?
Sarei stato sicuramente onorato.
Oggi che musica ascolta?
Ascolto musica solo per lavoro, non la
uso mai come sottofondo. Fare musica è un mestiere impegnativo, che non ammette
interruzioni, è un processo che assorbe molto.
Pensa di avere degli eredi artistici?
Vorrei, ma non ne vedo. Oggi c’è solo
la celebrazione della celebrità. Quando cantavamo noi lo facevamo sempre nel
rispetto dei maestri del passato; negli ultimi anni i cantanti pensano invece
di essere innovativi, i più bravi da subito e non si rendono conto che se fanno
cose belle è perché le copiano dal passato. Inoltre, nei testi di oggi manca
spessore, nessuno racconta la propria vita o la propria realtà; non c’è poesia,
viene tutto subito dichiarato. A questo punto basta fare un manifesto e
comunicare quello che si vuol dire, non occorre più scrivere canzoni. Oggi non
conta la produzione ma solo la promozione; insomma, la musica non conta più
nulla.
Ha qualche progetto di cui ci vuol
parlare?
Abbandonare la musica (scherza). No,
ora mi dedico a progetti nuovi come cantare con un’orchestra; ho inoltre finito
un album realizzato con musicisti stranieri e poi mi focalizzo sulla ricerca
del canto particolare e su quella di una lingua usata in modo poetico. Anche la
nostra lingua è in crisi perché adoperiamo non più di 40 parole al giorno, non
si riconosce il valore dei poeti del passato e non ci si accorge di quanto si
copi. La musica è stata molto importante per la società negli ultimi 100 anni,
ora invece non lo è più: non esprime più la realtà di oggi, non è più collegata
alla società.
Secondo lei, tutto ciò quando è
avvenuto?
È avvenuto quando l’industria musicale
ha capito che la massa è ignorante e quindi era inutile dar valore alla musica;
quando ha più valore vendere il personaggio, la musica diventa solo un
pretesto. Mi spiego: quando i Beatles sono venuti a Milano hanno fatto 3.500
persone, Vasco Rossi ne raduna 180.000 in tre giorni: Vasco vale di più dei
Beatles? A questa domanda non rispondo.
Possiamo dire che è solo questione di
gusti?
La musica non deve piacere, può anche
giocare un ruolo decisivo per mettere in crisi il sistema, non assecondarlo.
Oggi ciò non avviene più. L’opera lirica a suo tempo mise in crisi la musica
strumentale e Giuseppe Verdi era un artista popolare così come lo è oggi
Jovanotti: ma il valore di Verdi è innegabile rispetto alla musica leggera che
si ascolta oggi. Inoltre, nella maggior parte dei casi si finge di suonare…
nessuno suona più veramente, è tutto registrato. È come andare in fabbrica e
fingere di lavorare.
Per finire, come descriverebbe
l’Umbria in tre parole?
Dovevo prepararmi a casa… Posso però
prendere le parole di Nick Clabburn che ha scritto un testo in cui è citato il
lago Trasimeno: «Qua sulle rive del mio lago, il tuo nome è scritto nel
silenzio. Che si accenda il cielo, voglio luci nel cielo vuoto questa notte».