Il
provino per entrare nella PFM, l’avventura americana, le svolte e gli scazzi,
le occasioni perse perché i discografici non sapevano l’inglese, il rapporto
coi grandi musicisti, il nuovo album ‘Horizontal Rain’
Di
FABIO ZUFFANTI
ARTICOLO ORIGINALE SU ROLLING STONE ITALIA
Bernardo Lanzetti ha
attraversato la storia del prog italiano, prima con l’Acqua Fragile e poi con
la Premiata Forneria Marconi, apponendo la sua firma vocale in dischi
fondamentali quali Chocolate Kings, Jet Lag e Passpartù. Poi la carriera
solista, mille altre collaborazioni e ora un nuovo album: Horizontal Rain,
sorta di summa del suo percorso artistico. Ne parliamo in un’intervista nella
quale non tralascia di svelare aneddoti e inediti particolari del suo rapporto
con la PFM.
Horizontal
Rain è un disco prog alla tua maniera: passatista e futurista allo stesso
tempo. Sei d’accordo con questa definizione?
Direi
di sì, in realtà è l’unione di due o tre progetti ai quali lavoro da qualche
anno, nove brani sotto l’egida di un certo tipo di prog a 360 gradi che ho
costruito attorno alla mia sensibilità e alla mia voce. Prog inteso come
veicolo per sperimentare forme diverse, alternative, di canzone. La
sperimentazione è a mio avviso ciò che unisce tutti gli artisti che si dedicano
a questo genere; chi sperimenta attraverso la musica classica, chi attraverso
il jazz, la contemporanea…. I più bravi riescono a mischiare il tutto.
Nel
disco ci sono 19 musicisti, con tanto di sezione fiati e coro. Spiccano inoltre
gli ospiti internazionali.
Sì,
c’è Jonathan Mover, batterista che ha suonato con i GTR di Steve Hackett e
Steve Howe, con i Marillion, Joe Satriani, Aretha Franklin… Jonathan mi ha
sottoposto tutta una serie di idee che hanno contribuito a far funzionare
ancora più i brani. Poi c’è Tony Levin che aveva pochi giorni liberi, ma dopo
avere ascoltato le canzoni ha deciso immediatamente di lavorarci, una cosa
molto bella da parte sua. Tra l’altro le stesse canzoni erano già state suonata
da un bassista molto bravo, ma quando Tony vi ha aggiunto il suo stick le ha
letteralmente capovolte, incredibile. In seguito, ci siamo incontrati nel
camerino durante un concerto dei suoi Stick Men e mi ha offerto un sandwich col
salame, scusandosi del misero trattamento a causa di un tour a basso budget
(ride). Sul versante degli inglesi ci sono David Cross dei King Crimson e David
Jackson dei Van Der Graaf Generator, che con il suo sax baritono ha sostituito
il basso in un pezzo.
A
proposito degli ultimi due, hai mai avuto occasione di dividere il palco con
loro durante gli anni ’70?
In
realtà no, anche se nei ’70 sono venuto a contatto con alcuni musicisti dei
King Crimson. Dovevo cercare di incontrare Peter Sinfield per chiedergli il
permesso di pubblicare il brano con il suo testo. Chiesi a Greg Lake, che in
quel periodo frequentavo, il quale mi disse che Sinfield era andato ad abitare fuori
Londra e che stava conducendo una vita eremitica a causa di una serie di
problemi di depressione, non rispondendo nemmeno più al telefono. Si faceva
consegnare ogni giorno tutti i quotidiani e li sparpagliava per terra al fine
di trovare ispirazione. Parlando con David Jackson un giorno scopro che questi
si è da poco trasferito nella stessa località dove abita Sinfield e che sua
figlia, una cantante jazz, ogni tanto va a trovarlo. Così ho fatto in modo di
recapitare un CD con il brano a David che lo ha passato a sua figlia. Questa un
giorno in macchina con Peter mette il CD senza dirgli nulla e lui rimane
piacevolmente stupito di sentire il suo testo in una canzone sconosciuta. Da lì
ho ottenuto la sua approvazione. La canzone è Rain Drops ed è uscita in A
New Chant, l’album della reunion dell’Acqua Fragile.
Il
tuo cammino musicale inizia negli Stati Uniti quando eri ragazzo, un’esperienza
che ti ha permesso di imparare l’inglese con il quale ti sei espresso
vocalmente in maniera perfetta.
Sì,
ebbi modo di passare un periodo negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio,
totalmente isolato dalle comunità italo-americane, l’unico contatto che mi
rimaneva con l’Italia erano le lettere che mi spediva mia madre. Mi immersi a
tal punto che vidi il mio italiano peggiorare di mese in mese a favore
dell’inglese. Nella famiglia presso cui stavo c’era un ragazzo che per
combinazione faceva il musicista e che in seguito mi avrebbe rivelato diverse
verità sul mondo discografico americano, gestito nella quasi totalità da
italo-americani. Prince, per dire, aveva tre manager: Ruffolo, Cavallo e
Faregnuoli, uno dei capi del colosso Atlantic era tale De Antonio. Gli
italo-americani hanno finanziato anche il mercato italiano: Celentano e Mina,
per esempio, avrebbero dovuto avere successo anche negli Stati Uniti, ma poi
per la loro paura di volare non hanno mai approfittato dell’occasione.
Come
fu preso dal pubblico americano Chocolate Kings, con tanto di bandiera a stelle
e strisce accartocciata in copertina?
Guarda,
io sono entrato nella band tre giorni prima che entrassero in studio a
registrare. Mauro Pagani aveva lavorato a tutti i testi tranne uno, Out of
the Roundabout, che poi ho scritto io, con Marva Jan Marrow, cantante e
poetessa statunitense che spesso ci dava una mano con le parole. La stessa
Marrow rivelerà più tardi che alla fine agli americani non interessava che
qualcuno dal di fuori venisse a dir loro quali erano i difetti della nazione.
Un conto è se lo faceva Bob Dylan, un conto un gruppo europeo, italiano. Non è
che si siano arrabbiati, proprio non gli dettero peso. La copertina poi non fu
un’idea della band, bensì della Manticore, e noi per contratto non potevamo
mettere becco in tali scelte. Io comunque, come ti ripeto, sono arrivato quando
già tutto era stato organizzato.
Da lì
a poco poi Mauro Pagani abbandonerà soprattutto per ragioni legate al suo
crescente impegno politico. Che rapporto avevate?
Io e
Mauro vivevamo in una specie di comune, con dentro operai, letterati e artisti.
Mauro abitava all’ultimo piano con la moglie. In questa casa ci fu una riunione
col gruppo e Pagani comunicò la decisione di abbandonare la band. Rimasi
scioccato dal fatto che nessuno spese una parola per fargli cambiare idea. Io
del resto all’epoca non avevo un peso politico all’interno del gruppo, ero
l’ultimo entrato. Poi la vita fino a quel momento era stata convulsa: avevo
debuttato durante un tour giapponese, eravamo stati in Canada, in Inghilterra
dove avevamo fatto 19 concerti in 20 città. E le poche volte in cui eravamo a
casa io e Mauro non ci mettevamo certo a suonare o a parlare di musica, ogni
tanto lui si estraniava, suonava l’armonica con quelli della comune, faceva
blues, una delle sue prime passioni, e io non osavo disturbarlo. Era sempre più
coinvolto nella politica e disse che se ne andava anche per fare un lavoro
legato al gruppo culturale Santa Marta, mise su una sorta di scuola. Una cosa
molto idealista, all’epoca le utopie avevano il loro peso.
Mi
puoi raccontare la genesi del tuo coinvolgimento nella PFM?
Un
giorno di ottobre mi convocarono in una discoteca nella quale dovevano fare un
concerto. Al ristorante mi dissero che mi avrebbero voluto come cantante. Era
appena uscito Mass Media Stars, il secondo album dell’Acqua Fragile, un
disco in cui io credevo molto per il quale la PFM ci aveva promesso una
distribuzione all’estero. Per cui io candidamente dissi: «Ah, bello, molto
interessante. Datemi una settimana di tempo e vi do una risposta». E loro
si offesero. Dopodiché con l’Acqua Fragile andammo in tour proprio di supporto
alla PFM. Io ero meravigliato, nessuno parlava più dell’argomento finché venni
a sapere che avevano contattato un altro cantante: Ivan Graziani, che all’epoca
non era il cantautore che tutti conoscono, era un bravissimo chitarrista, un
session man molto richiesto, un ottimo cantante che già suonava per
divertimento con Flavio Premoli in un localino in Brera nel quale facevano
pezzi dei Beatles. In
seguito, capitò che la PFM dovesse fare una singola serata al Rainbow di Londra
e lì incontrarono Greg Lake e Pete Sinfield, che gestivano la Manticore,
l’etichetta che distribuiva i loro dischi all’estero. I due non furono esaltati
da Graziani, secondo loro la band aveva bisogno di una voce più a suo agio con
l’inglese, più potente e già avvezza con il prog. Successe così – questa cosa
me l’hanno raccontata quindi prendila con il beneficio del dubbio – che al
ritorno in albergo, dopo il concerto, Franco Mussida disse agli altri: «Voglio
la testa di Bernardo» (ride). Mi mandarono quindi a chiamare per
incontrarmi di nuovo e io immaginai che volessero darmi la notizia che Mass
Media Stars aveva finalmente trovato una distribuzione internazionale. Così
partii da Parma e arrivai a Milano con solo il giubbino e i pantaloni di jeans,
la spazzola e i documenti. Venni fatto accomodare nell’ufficio del manager
Franco Mamone e mi dissero che volevano essere sicuri che io potessi diventare
il loro cantante. Io stupito dissi: «Ma come, tra tre giorni entrate in
studio per registrare il nuovo disco dopo avere lavorato sei mesi con Ivan
Graziani…?». «Tu non ci pensare», mi rispondono, «devi solo
preoccuparti di cantare, debutteremo a Tokyo». Che potevo dire? «Va bene».
Lo
step successivo era controllare le tonalità dei brani. Andai a casa di Mussida
insieme a Premoli. Da poco Franco e sua moglie erano diventati genitori di due
gemelli, e l’appartamento in cui vivevano era piccolo. Franco e Flavio
accennarono i brani e nei momenti con le note più alte io le intonai alla mia
portata, a un volume considerevole. Loro: «No, fai piano che poi i bambini
si svegliano e i vicini protestano!». Che potevo fare? Presi un cuscino dal
divano e feci tutto il provino cantando con la faccia schiacciata nel cuscino
per ammortizzare il volume. Questa fu la mia audizione. Da quel momento
cominciò l’avventura, mi trasferii a Milano e cominciammo a registrare, con la
band che impiegava tre giorni per fare la base di un pezzo, mentre io in tre
giorni dovetti cantare tutto l’album, comprese le doppie voci (ride).
Come
la presero i ragazzi dell’Acqua Fragile?
Non
molto bene, pensarono a un tradimento. In quel periodo aveva cominciato a
suonare con noi anche Joe Vescovi, proveniente dai Trip, che si incazzò
parecchio. In più era ospite a casa mia, ti lascio immaginare. Io però lasciai
loro il nome e l’attrezzatura le cui cambiali era state firmate da me.
Provarono con un sostituto ma presto si accorsero che mancava il motore che ero
io. L’unica cosa che non facevo era guidare il camion, per il resto tenevo i
rapporti con la casa discografica, scrivevo i testi, le musiche, gli
arrangiamenti, coinvolgevo tutti… avevo fatto molto per l’Acqua Fragile. Per
loro quindi non fu facile rimettersi in gioco, poi nel
’75 il prog entrò in crisi, cominciarono a subentrare i cantautori che erano
molto più facili da gestire.
Quindi
tu debuttasti dal vivo con la PFM non in un posto qualsiasi, ma a Tokyo?
Esatto.
Visti i tempi stretti del mio ingresso nel gruppo, la Manticore non fece in
tempo a divulgare foto della nuova formazione. Quando arrivammo a Tokyo
chiaramente molti non sapevano chi fossi. Lì c’è un’usanza per la quale alla
fine del concerto molti spettatori lanciano dei sacchettini di carta con dentro
dei piccoli regali come origami, ciondoli… Uno lanciò un fumetto con le
caricature e i nomi dei musicisti della PFM, sul mio c’era un punto
interrogativo (ride). Comunque, arriviamo, decidiamo la scaletta che poi io
avrei dovuto annunciare brano per brano mentre gli altri si accordavano o
sistemavano i loro strumenti. Sta di fatto che io a un certo punto annuncio un
brano al posto di un altro. Dovrebbe esserci anche una registrazione, un
bootleg. Praticamente, si sente Mauro Pagani imprecare, qualcosa tipo «Porc…
adesso quel pezzo dove lo mettiamo?». Io mortificato non potei fare altro
che seguire la band che andò avanti saltando il pezzo che avevo scordato. Alla
fine, andiamo in camerino e Pagani mi fa: «Bella la scaletta senza quel
pezzo!».
L’anno
successivo, dopo la partenza di Mauro, registraste negli USA Jet Lag, uno dei
più tosti album jazz-rock-prog mai pubblicati in Italia. Con quel disco però il
sogno americano della PFM sembra allontanarsi.
L’etichetta
che lo pubblicò negli Stati Uniti, la Elektra, credeva molto in Jet Lag,
ma come spesso accade c’erano diversi giochi di potere. Al presidente piacevamo
molto, ai direttori artistici evidentemente no. Nonostante ciò, all’epoca facevamo
faville, ai concerti veniva a vederci gente come Jaco Pastorius, i Return to
Forever di Chick Corea, i Chicago… tutti a farci i compimenti, alcuni vedevano
anche due show… Ma all’epoca non c’era internet, non c’erano i video, per farti
conoscere dovevi girare tutti gli Stati Uniti, passare mesi con una diaria
settimanale, mentre in Italia avevamo il nostro cachet fisso quando suonavamo.
Sta di fatto che a un certo punto mettemmo ai voti se rimanere in America a
spaccarci le ossa o tornare a casa. Io e un altro volevamo restare, ma la
maggioranza decise di tornare.
Con “Passpartù”
le sonorità tornano mediterranee, come andò il lavoro per quel disco?
Lì la
band decise di rifondare il suo modo di suonare, facemmo diversi provini da
sottoporre a chi si sarebbe dovuto occupare dei testi, per la prima volta un
esterno alla band: Gianfranco Manfredi. A un certo punto io mi ammalai e la
band continuò a comporre senza di me, quando tornai mi resi conto che i pezzi
erano in tonalità non corrette per la mia voce. E non si
poté fare nulla. Io rimasi mortificato… alla fine un brano venne tenuto
strumentale, un altro lo cantò Mussida e altre cose non furono mai eseguite dal
vivo. Mi ricavai però uno spazio in Fantalità, di cui scrissi il testo.
L’atmosfera
stava diventando un po’ incandescente, mi sembra di capire.
Più
che altro mi sentivo sottoutilizzato. Finivo i concerti e non ero neppure
sudato, cominciavo a scaldarmi al terzo bis, quando tutti gli altri erano
stanchi e scarichi, compreso il pubblico. Praticamente ero diventato il
presentatore della band, annunciavo tutto, i brani cantati e quelli
strumentali, poi andavo dietro le quinte ad aspettare che il pezzo finisse. A
volte facevo ginnastica per cercare di sudare un po’. All’epoca avevamo
aggiunto Roberto Colombo alle tastiere che mi diceva: «Bernardo, non devi
sentirti emarginato, tu sei a tutti gli effetti uno della band più importante
d’Italia». Poi però, durante l’esperienza con De André fu lui a venire
emarginato, quindi mi disse: «Come ti capisco».
Durante
il tour con De André tu facevi ancora parte della PFM, anche se chiaramente non
partecipasti.
Quando
la PFM andò in Sardegna a incontrare Fabrizio io ero con loro. Mentre gli altri
parlavano del progetto con lui io mi appartai con suo figlio Cristiano a
suonare i pezzi di Crosby, Stills & Nash (ride). Loro poi si imbarcarono in
quel progetto e io ne approfittai per pensare a un disco solista, quindi la
situazione prese una piega che in qualche modo portò al mio abbandono definitivo.
Con
chi di loro legasti di più durante la tua permanenza?
Sicuramente
con Flavio Premoli, uno che riesce a esprimersi nella sua totalità con la
musica. Una volta in camerino prese in mano un violino, che non aveva mai
suonato prima, se lo mise tra le gambe come un violoncello e, senza guardare lo
strumento, suonò la melodia di uno dei brani dell’Acqua Fragile. Pazzesco. È in
grado di suonare qualsiasi brano e strumento. Era anche il più dotato per il
canto, solo che non gli piaceva, non aveva voglia di imparare i testi, per lui
era una scocciatura. Questo vale per tutta la band, nessuno all’epoca era
interessato a cantare, si esprimevano con gli strumenti.
Paradossalmente
dopo la tua uscita il canto diventa invece preponderante nei nuovi dischi del
gruppo, come giudichi questa sterzata?
Beh,
sai, io ho preso la patente a 50 anni, e per certe cose non ho la dimestichezza
di uno che guida da quando ha 18 anni. Lo stesso per la voce, se inizi a
cantare dopo i 30 non puoi avere l’esperienza e la confidenza con la postura e
la gola, per cantare tutte le sere. A parte questo c’è stato sicuramente un
cambio di rotta e le cose che abbiamo fatto insieme non sono quasi più state
recuperate dal vivo, anche perché non ce la facevano a riprodurre la mia
tonalità.
Facciamo
un deciso passo indietro, come era nata l’Acqua Fragile?
Su
spinta soprattutto di Pagani e Mussida. Io, il batterista Piero Canavera e il
chitarrista Gino Campanini suonavamo in un gruppo che si chiamava Gli
Immortali, facevamo cover dei Gentle Giant, di Crosby, Stills & Nash, dei
Jethro Tull… A un certo punto ci trovammo a fare da spalla alla PFM degli
albori, anche loro dietro a tutta una serie di cover. Io già conoscevo Mauro
Pagani che tempo addietro suonava con i Dalton e che era venuto a chiedermi
consigli su quale cifra chiedere nei locali. Lui e Franco Mussida ci videro e
ci dissero che secondo loro avevamo un potenziale notevole. Siccome avevamo
anche due elementi che erano un po’ più grandi, ci chiesero di ringiovanire la
band e di contattarli perché si stavano delineando tutta una serie di
situazioni interessanti. A quel punto Gino Campanini chiamò due musicisti dal
suo ex gruppo I Moschettieri, tastierista e bassista, e andammo a Milano per
incontrare il manager Franco Mamone. A quel punto però non avevamo ancora un
nome, così ognuno tirò fuori un’idea. Ricordo che ero in Galleria del Corso a
Milano e mi venne questa idea di Acqua Fragile, per fortuna a Mamone piacque
perché l’idea precedente era di chiamare la band Penthouse (ride).
A quel
punto la PFM vi porta alla Numero Uno, l’etichetta di Battisti e Mogol…
Prima
Mussida ci fece fare dei provini negli studi della Ricordi, per la quale loro
avevano spesso lavorato in passato come session men. Poi ci indirizzarono al
produttore Sandro Colombini. Io andai a casa sua e lui mi disse che i testi
erano da rifare tutti in italiano, cosa che rifiutai categoricamente. A quel
punto subentrò la Numero Uno, con Claudio Fabi alla produzione che già aveva
lavorato ai primi due album della PFM. In realtà la Numero Uno non sapeva che
noi cantavamo in inglese, un giorno uno dei responsabili venne ad ascoltare le
registrazioni sulle quali stavamo lavorando e impallidì. All’epoca i gruppi che
non cantavano in italiano erano malvisti, quindi ci spinsero a provare a fare
delle versioni italiane dei nostri pezzi. Io a quel punto dissi che potevamo
provare a fare un esperimento con un brano per vedere come suonava. Così
chiamarono Bruno Lauzi affinché lavorasse al testo. Io stimavo moltissimo
Lauzi, ma non ero convinto. Fortunatamente lo stesso Bruno alcuni giorni dopo
parlò personalmente con i responsabili della Numero Uno
dicendo: «Ragazzi, questa canzone è così bella in inglese, perché la volete
rovinare?».
Incontraste
anche Lucio Battisti?
Lo
vidi solo di sfuggita un giorno, era venuto a fare dei provini in un piccolo
studio. Era molto riservato, Mogol in un certo senso gli faceva da scudo.
Accettato
il fatto che cantavate in inglese i lavori per il primo album procedettero
spediti?
Macché,
ai piani alti non si arresero, finite le registrazioni non si sentivano pronti
a farlo uscire e fecero una riunione con i venditori, quelli che andavano nei
negozi, prima che il disco uscisse, a convincere i negozianti a prenderlo. Il
tutto senza preview, trailer o altro, erano questi venditori che dovevano
convincerli, a volte inventandosi delle campagne promozionali. Comunque, fecero
questa riunione, i venditori ascoltarono il disco e alla fine ci fu un
applauso. A loro venne in mente una promozione speciale per i negozianti: per
ogni dieci dischi di Lucio Battisti erano obbligati a prenderne anche uno
dell’Acqua Fragile. Quindi il nostro disco omonimo uscì e fu presente
praticamente ovunque, anche perché nessun negozio poteva esimersi dall’avere
gli album di Battisti.
Come
andò invece con Mass Media Stars?
Lì le
cose mutarono un po’, il direttore artistico era cambiato e andammo incontro ai
soliti problemi con l’inglese. Dopo averlo ascoltato, i dirigenti dissero che Mass
Media Stars faceva venire il mal di testa. Quindi il disco si bloccò. Qui
entrò in gioco Claudio Fabi che ci disse che sarebbe stato utile migrare alla
Ricordi, dove era appena approdata anche Mara Maionchi che quindi avrebbe
potuto facilitare il passaggio. La Ricordi ci accolse a braccia aperte e…
affossò il disco. Ne uscirono 600 copie, il minimo contrattuale, quindi fu
praticamente introvabile. In quel periodo entrò Joe Vescovi alle tastiere e
avemmo un’occasione con un grande produttore americano: il mitico Seymour
Stein, che voleva la band a tutti i costi. Peccato che questo lo seppi anni
dopo, tutti i suoi fax che erano arrivati alla Ricordi non erano nemmeno stati
letti, perché in quell’ufficio nessuno sapeva l’inglese…
Col
senno di poi rifaresti la scelta di abbandonare la tua band per la PFM?
Ci ho
pensato spesso, a conti fatti la mia esperienza con loro non è stata
preponderante nello svolgimento della loro storia, specie dopo la
collaborazione con De André. Da un’altra parte però l’Acqua Fragile a un certo
punto aveva solo debiti… sarebbe stata dura. Forse a livello artistico mi posso
rimproverare di non avere calcato sufficientemente la mano con la PFM… ma non
era facile, c’erano diverse correnti, artistiche e amministrative, nella band e
sarebbe stato utile che le due cose fossero andate di pari passo. Se avevi
un’idea che poi il management bocciava era un’idea inutile, bisognava sempre
trovare un compromesso. A un certo punto dovetti rassegnarmi al fatto che loro,
all’epoca, non ritenevano la voce, la vocalità, uno degli aspetti importanti
del loro progetto.