Il dipinto originale del logo Acqua Fragile
L’intervista di Vito Vita
Sicuramente
i lettori di «Prog Italia» sanno già chi è Bernardo Lanzetti: però se sei
d’accordo, prima di parlare del nuovo disco, ripercorrerei ugualmente la tua
carriera…
Certamente.
Partendo dal primo gruppo con cui sono entrato in sala di registrazione, la mia
attività musicale inizia con gli Acqua Fragile. Nel 1970 avevo incontrato Mauro
Pagani, che suonava in un gruppo che si chiamava Dalton, mentre invece io
cantavo in un’altra band, Gli Immortali. Facevamo cover inglesi e americane, e
con Mauro avevamo fatto una chiacchierata a proposito dei locali della zona in
cui era possibile suonare: come li trovavamo, come funzionavano i contatti,
quanto pagavano e cose così… confrontavamo il loro budget con il nostro, per allinearci
sulle richieste. Poi nel 1971 l’ho rivisto sul palco con la Premiata Forneria
Marconi, a Bologna, prima ancora che incidessero il loro primo album: aprivano
il concerto dei Deep Purple. Abbiamo chiacchierato nuovamente e, di lì a
qualche mese, con Gli Immortali, abbiamo fatto da spalla alla Premiata in un
loro concerto, in cui però proponevano ancora quasi tutte cover, King Crimson e
Jethro Tull per lo più. In quell’occasione Mauro e Franco Mussida, che avevo
conosciuto, ci dissero che dal punto di vista musicale avevamo un forte potenziale
ma che secondo loro c’erano due musicisti, che erano quelli più anziani, che
appartenevano a un’altra generazione e che avrebbero dovuto essere sostituiti,
in maniera tale da poter elaborare qualcosa di originale. Quindi alla fine del 1971
noi tre, il batterista Piero Canavera, il chitarrista Gino Campanini e io,
decidemmo di formare un nuovo gruppo, appunto gli Acqua Fragile, chiamando con
noi il bassista Franz
Dondi, che veniva da I Moschettieri, un gruppo beat con cui aveva inciso un 45
giri, e il tastierista Maurizio Mori. A quel punto iniziammo a preparare del
materiale originale e a proporlo dal vivo, senza perdere i contatti con la
Premiata, soprattutto con Franco, che in qualche modo riuscì a farci fare un
provino alla Ricordi, con Sandro Colombini, che però non andò bene.
Nello studio di Derek Sherinian
Quindi
prima di registrare l’omonimo album di esordio con la Numero Uno: curioso,
visto che poi per la Ricordi avete inciso qualche anno dopo…
Sì,
ma nel frattempo erano successe altre cose. Continuammo a suonare dal vivo
prima della Premiata, facendo da spalla nei loro tour, soprattutto nel
meridione, e così dopo qualche tempo ci misero in contatto con la Numero Uno. In
pratica convinsero il loro produttore, Claudio Fabi, a lavorare anche per noi. In
questo modo è nato il nostro primo album omonimo, pubblicato nel 1973. C’è
stato un bell’impegno da parte della Premiata, che evidentemente ci apprezzava,
in particolare devo dire da parte di Franco Mussida.
Copertina di ACQUA FRAGILE
Poi
però il secondo album, “MASS MEDIA STARS”, l’avete pubblicato con la Ricordi,
non più con la Numero Uno: come mai?
Quando
portammo MASS MEDIA STARS a Claudio Bonivento, il produttore
cinematografico che era il direttore artistico della Numero Uno, non ebbe il coraggio
di dare un giudizio e decise di girarlo al capo dell’Ufficio Contabile, Antonio
Coni, un romano che si era trasferito a Milano. Arrivava dalla RCA, dove
evidentemente era abituato ad altre musiche. Lo ascoltò e disse: “Ahò, ’sto
disco me fa venì er mal di testa…”. Era
una brava persona, per carità, ma assolutamente inadatto a dare un giudizio su
un gruppo italiano che faceva prog in inglese.
Acqua
Fragile e Gentle Giant durante il tour italiano del 1973
A quel punto Claudio Fabi ci disse
che aveva un gancio con la Ricordi e provò a proporre il disco a loro che, in
questo caso, ci misero sotto contratto, al contrario di quello che era successo
qualche anno prima. Pubblicammo MASS MEDIA STARS con loro alla fine del
1974. La cosa curiosa è che oggi, con tutte le varie acquisizioni,
incorporazioni, chiusure delle varie etichette italiane e via dicendo, tutti e
due gli album incisi negli anni ‘70 dagli Acqua Fragile sono di proprietà della
Sony.
Bernardo
in chiave “Facevox”, come ha definito lui queste foto
Dopo
questo secondo album però si conclude l’esperienza degli Acqua Fragile perché
tu entri come cantante nella Premiata Forneria Marconi…
Sì,
la Premiata, diventata nel frattempo PFM per conquistare il mercato anglofono, ebbe
l’input dai manager e dai discografici americani di prendere un cantante di
ruolo per poter continuare a suonare in America: il fatto è che loro, pur
sapendo cantare, non avevano una vera e propria voce solista, diciamo che il
canto era un po’ il loro punto debole. Quando
mi contattarono, MASS MEDIA STARS era appena uscito, quindi chiesi
una settimana di tempo per dare una risposta.
Loro si risentirono, diciamo pure
che si offesero, e allora si indirizzarono su un altro cantante che
conoscevano, ovvero Ivan Graziani. Ivan non era ancora famoso come cantautore, anche
se erano anni che suonava. Fecero un po’ di prove insieme, andarono anche a Londra
per un concerto portando Ivan con loro, ma a un certo punto ebbero un
ripensamento, forse anche dopo aver sentito l’opinione di qualche discografico,
e mi richiamarono dicendo che dovevo entrare subito nella band. Io risposi che
era da sei mesi che stavano lavorando con Ivan e inoltre sapevo che entro pochi
giorni sarebbero dovuti entrare in studio, ma loro mi risposero che proprio per
questo motivo il mio coinvolgimento era urgente. Per Ivan Graziani fu una
fortuna, dato che in questo modo poté concentrarsi sulla sua carriera solista:
non credo che le sue ballate si sarebbero potute integrare facilmente nel suono
della PFM.
Acqua
Fragile nel 1972
Quindi
entri nella PFM e vai subito in sala per registrare le parti vocali di “CHOCOLATE
KINGS”, pubblicato nel 1975…
Sì, prima
però abbiamo dovuto verificare le tonalità dei brani, perché Ivan, che era
molto dotato vocalmente, aveva questa voce particolare in falsetto, da contralto.
Con Flavio Premoli andammo a casa di Mussida, che era diventato in quel periodo
papà di due gemelli: mi ricordo che provando il primo pezzo iniziai a cantare e
Mussida mi fermò: “No, non così forte che poi i vicini di casa ci fanno delle
storie”. Allora presi un cuscino del divano e proseguì le prove cantando dentro
al cuscino. Il problema è che mi mancava una nota, non riuscivo a prendere un
SI. Glielo feci presente, ma Mussida rispose: “Ma sì, vedrai che poi ce la
fai”. Tornato a casa mi esercitai per prendere quella nota, e alla fine ci
riuscii. Anzi, da quel momento in poi
sono salito ancora riuscendo a prendere il DO, intendo il DO di petto non il DO
di testa, il DO diesis e il RE. Con la voce di testa riesco ad arrivare ancora più
in alto. Adesso ho più di tre ottave di estensione vocale, ma non le uso tutte perché
non so cosa farne.
Con
la PFM, dopo “CHOCOLATE KINGS”, hai inciso “JET LAG” (1977) e poi “PASSPARTÙ”
(1978). Un album particolare perché è stato il primo tentativo da parte del
gruppo di avvicinarsi alla canzone d’autore, visto che i testi, tutti in
italiano al contrario dei due dischi precedenti, sono di Gianfranco Manfredi…
Direi
che quel disco sancisce la rinuncia della PFM al mondo angloamericano. Quando
eravamo ancora negli Stati Uniti, precisamente a Los Angeles, fu messo ai voti
se ritornare in Italia o meno: io votai contro, insieme a Flavio Premoli,
mentre Mussida, Djivas e Di Cioccio erano a favore. Il voto di Premoli mi
sorprese, perché non
era mai stato un grande amante dell’esperienza estera, ma in realtà in America
aveva avuto molte soddisfazioni personali: c’erano un sacco di musicisti che
venivano a vederci sostanzialmente per ascoltare lui e Franco Mussida. Ti parlo
di gente come i Return to Forever di Chick Corea, di Jaco Pastorius…, insomma nomi
importanti, questo perché Flavio era in grado di improvvisare ogni sera e
rendere sempre le esecuzioni dei pezzi diversi in ogni concerto, così come
anche Franco. Invece con PASSPARTÙ si decise di fare un disco in
italiano, per l’Italia, anche musicalmente italiano, e io fui esautorato dai
testi. Ci fu solo un brano che aveva un
mio testo, Fantalità: entrò nel disco grazie alla moglie di Franco
Mussida, che si batté affinché fosse incluso, una cosa particolare: ricevetti
un aiuto al di fuori della band.
Quindi
possiamo dire che il fatto che poi hai abbandonato la PFM è stato dovuto anche all’esperienza
negativa di “PASSPARTÙ”?
Ha
influito sicuramente, ma c’è stata una concomitanza di fattori: la fine dell’esperienza
americana, il fatto che volevano tornare all’antico e fare i provini dei brani,
cosa che ultimamente non avevano più fatto perché solitamente i provini si
fanno per capire come arrangiare le canzoni, ma non per i pezzi prog in cui si suona
insieme buttando giù le idee che poi si rifiniscono in sala di registrazione, mettendo
a posto le varie parti dei brani. Io in quel periodo mi influenzai e quindi non
andai con loro in studio. Quando guarii e andai a Milano per ascoltare il
tutto, scoprii che avevano usato delle tonalità che non erano le mie, troppo
basse. In più c’erano alcune tracce in cui la voce non era prevista… insomma,
avevano lavorato come se io non ci fossi.
A quel punto un brano lo cantò
Mussida, un altro rimase strumentale, un terzo lo cantai io ma con la voce che
sembrava provenire da una cantina… insomma, PASSPARTÙ non è un disco
adatto a un vocalist. Se poi non ci si sforza nemmeno di trovare le tonalità
giuste per il cantante, è evidente che non ci sia la volontà di lavorare insieme.
Quindi per me sono maturati i tempi di lasciare la band e di tagliare con il
passato. Aggiungi poi che dopo PASSPARTÙ il loro progetto successivo era
quello di accompagnare dal vivo De André, in cui per ovvii motivi non era
contemplata la mia partecipazione…
PFM su
«Ciao 2001» (novembre 1975)
Certo,
immagino che a quel punto fossi già fuori…
Ho
partecipato solo a qualche incontro all’inizio, il primo in Sardegna dopo un nostro
concerto e poco altro.
Infatti,
l’anno dopo “PASSPARTÙ” firmi con una nuova etichetta, la Ciao Records, e
pubblichi il tuo album di debutto “KO”, seguito nel 1980 da “BERNARDO LANZETTI”
e poi nel 1981 da “GENTE NERVOSA”, in cui prendi la strada di un rock in
italiano con suoni
più duri rispetto a quelli della PFM…
Tutto
esatto, anche se bisogna dire che delle canzoni c’erano anche le versioni in
inglese, pubblicate negli album HIGH ROLLER (1979) e NO LIMITS (1981),
quindi rock cantato in italiano per l’Italia, ma con un respiro internazionale. Era
quella che sentivo essere la mia strada in quel momento. Solo che il destino
degli artisti italiani è diverso da quelli del mondo angloamericano: un musicista
inglese fa un disco e questo automaticamente è pubblicato in contemporanea in
una cinquantina di Paesi così com’è, senza bisogno di essere ricantato in
un’altra lingua, mentre a noi va già bene se esce in Italia. Capisci
l’eccezione della PFM, e di come abbiano buttato al vento un’occasione? Avevano
ottenuto la possibilità di essere alla pari con i gruppi angloamericani, cioè
di pubblicare con la Manticore ogni loro disco in contemporanea in tutto il
mondo, cantato in inglese con la stessa promozione riservata agli artisti
d’oltreoceano: questo era il contratto che avevano ottenuto!
Un’occasione buttata via. Per motivi rispettabili, certamente.
Allontanandoci
per un attimo dal prog e spostandoci sulla musica leggera: nel 1984 una tua
canzone, “Una sera che piove”, viene incisa da Loredana Bertè diventando il
brano di punta del suo album SAVOIR FAIRE. Come è nata questa collaborazione?
È
nata perché in quel periodo frequentavo Ivano Fossati, eravamo entrambi alla
CBS. Ho anche collaborato al suo album VENTILAZIONE, sempre nel 1984. Mi
interessavo molto ai suoni elettronici e avevamo trovato questo punto comune:
anche lui aveva questi interessi e così sul suo disco ho suonato questi
strumenti, sequencer, synth. Una
volta era andato a Bologna a comprarsi una nuova tastiera, ma non era molto
convinto: il giorno dopo gli telefonai e mi raccontò che era andato lì per
comprarla ma poi, passando davanti a un negozio, aveva visto in una vetrina un
bel soprabito e alla fine aveva comprato quello invece della tastiera. Comunque,
in quella occasione mi disse che stava per produrre il nuovo album di Loredana
Bertè, JAZZ, e che avrebbe voluto un pezzo mio, ma gli serviva in fretta
perché dopo due giorni dovevano partire per Londra, dove avrebbero registrato. Io
avevo già qualche brano di cui avevo fatto il provino su cassetta, glieli mandai
subito. Dopo qualche tempo, Ivano mi disse che avevano scelto “Ho chiuso col
rock’n’roll”, che io avevo appena pubblicato nel mio disco del 1982. Per il
successivo album di Loredana, Ivano mi disse che dovevo scrivere un pezzo appositamente.
Una sera ero con i Volpini Volanti, dei fratelli Beppe e Piero Gemelli - morti
da poco entrambi - Franco Cristaldi e Betty Vittori, e abbiamo deciso di fare
un giro per Milano. Stava piovendo, siamo andati in un bar dove c’era Loredana
che si stava baciando con il suo ragazzo dell’epoca: io presi nota della
situazione, Milano in macchina una sera che piove, tutti che guardavano
Loredana, e da questo punto di partenza scrissi la canzone. La registrarono e
Ivano mi disse che secondo lui questo brano mi avrebbe portato fortuna, e così
fu. La prima volta che andai a vedere dal vivo Loredana chiesi ad Aida Cooper,
che era la corista, se il brano fosse in scaletta e mi rispose: “Certo, lo
facciamo sempre”. Grazie al successo della canzone Ivano mi coinvolse anche per
un album di Ornella Vanoni.
Lanzetti
con la Steam Band nel 1983; il secondo da sinistra è Clive Bunker, batterista
originale dei Jethro Tull
Per
il disco “O”, del 1987, che infatti era prodotto da Fossati…
Sì,
andò allo stesso modo: io gli portai i brani, che però erano musicalmente un po’
più complicati, specialmente a livello di ritmica. In particolare, ce ne furono
due che gli piacquero: il primo si chiamava Non andare via e il secondo Ombre
in attesa: Ivano mi disse che però Ornella mi voleva in studio quando
avrebbe preparato i provini. Io andai in studio e la trovai
vestita molto rock, con gli stivali borchiati, il giubbotto di pelle, e
mi disse che voleva che la tenessi per mano quando avrebbe
registrato la voce per darle coraggio, visto che erano pezzi difficili.
Altri
aneddoti?
Ce
n’è un altro divertente con Loredana: ci siamo visti a Londra, lei stava
registrando un album con alcuni musicisti americani e la sera fummo invitati a
una mega festa dei Thompson Twins, in una villa in campagna fuori Londra. In
macchina con Loredana c’era un tastierista americano. A un certo punto ci siamo
persi, era tutto buio, finché abbiamo visto un’enorme mongolfiera illuminata, che
segnalava il punto dove stava la villa. Ci siamo inoltrati lungo questa strada
di campagna, ma quando siamo arrivati c’era un tizio della security, con una
giacca color amaranto, che ha fermato l’auto chiedendo l’invito. A questo punto
il tastierista americano ha tirato fuori il braccio dal finestrino e ha detto:
“Io vengo da New York e non accetto domande di merda da te”. Ho pensato che
sarebbe scoppiata una rissa, invece
si spostarono e ci fecero passare. Nella
villa come puoi immaginare c’era di tutto, c’era persino un gruppo che faceva
musica da camera e c’era anche la coda per andare nel bagno delle donne. Allora
Loredana si è diretta verso quello degli uomini, che l’hanno subito fatta
passare avanti.
A un
certo punto, verso la metà degli anni ‘80, hai lasciato la CBS: come mai?
Ivano
aveva deciso di produrmi, perché la CBS non mi rispondeva più nemmeno al
telefono e allora mi disse: “Senti Bernardo, se vuoi posso provare io a
produrre il tuo nuovo album”. Passò qualche tempo, poi Fossati mi chiamò e mi
disse che quando la CBS lo chiamava lo trattavano con il tappeto rosso, pronti
a qualsiasi cosa per i suoi dischi, ma quando iniziava a parlare di me e di
produrre il mio disco facevano
tutti orecchio da mercante; stessa cosa se lui telefonava a qualcuno della CBS
per parlarne. In pratica Ivano capì che non avevano proprio voglia di fare un
mio nuovo disco. A quel punto decisi di orientarmi verso altre situazioni: per
un po’ di tempo mi dedicai al teatro, intendo dire come musica di scena, non
come recitazione, con un rientro televisivo insieme ad Alberto Radius, Dino D’Autorio
e Flaviano Cuffari…
…i
Cantautores, con cui hai inciso due album di cover con qualche canzone tua…
Sì, e
oltre a quelli che ho citato prima c’erano altri session men di Milano e Roma.
Nel frattempo, però continuavo a dedicarmi a sperimentazioni musicali con la
voce e con l’elettronica. Così nacquero alcuni dischi particolari come “I SING
THE VOICE IMPOSSIBLE”, poi un disco dal vivo, “COVER LIVE”, con mie versioni di
classici rock dei
Creedence Clearwater Revival, di Janis Joplin, Ray Charles e altri, registrato con
il gruppo con cui suonavo. Poi “MASTER POETS”, con canzoni dei grandi
cantautori americani, come Tom Waits, Leonard Cohen, Bruce Springsteen, Joni
Mitchell, Dylan…
Questo
disco lo collegherei a “DYLANZ”…
Sì,
che è il mio tributo a Bob Dylan.
Un
artista che a prima vista sembra lontano dal prog, e quindi anche dal tuo
percorso musicale…
Tutto
vero, però a mio avviso Bob Dylan, pur venendo dal mondo folk-rock, con il suo
agire esprime veramente una grande ricerca e un’avanguardia. Pensa al 1965:
tutti fanno pezzi di due o tre minuti, arriva lui e fa Like a Rolling Stone
che ne dura cinque, mandando in crisi tutte le radio perché il disco era al
primo posto e loro dovevano trasmetterlo, ma gli faceva saltare tutti i palinsesti.
Poi un’altra cosa: Dylan in concerto cambia i testi delle canzoni più famose
improvvisandoli in rima, a volte inizia il brano da solo con la chitarra ma in
una tonalità diversa e i musicisti si devono adattare a suonare in modo
differente da come hanno provato, devono entrare al volo e adattarsi. Per me
Dylan si potrebbe definire un jazzista della parola e della poesia: non vuole
dimostrare di saper fare le sue canzoni, ma dimostra di fare musica, che è un
concetto molto più vasto. Sicuramente è il cantautore più europeo che ci sia
negli Stati Uniti: cita Shakespeare o Petrarca e ciò lo rende unico. Il fatto che
gli abbiano assegnato il Nobel per la letteratura lo rende un artista completo,
degno di chiamarsi con questo nome. E vuole spiazzare chi lo ascolta, non fa quello
che ci si aspetta da lui: se vogliono il folk fa il rock, se vogliono il rock fa
il country, se vogliono la protesta scrive testi simbolisti, insomma musica non
per compiacere il pubblico. Per me è un ascolto in cui, musicalmente, mi
allontano dal prog: però non dimentichiamoci che il prog ha bisogno di testi di
alto livello, non a caso i King Crimson avevano un paroliere poeta come Pete
Sinfield.
Che
aveva scritto i testi in inglese per la PFM…
Esattamente.
Molti giovani gruppi prog che ascolto, magari musicalmente validi, hanno questa
lacuna: non hanno capito che esiste un linguaggio poetico anche nelle parole,
non solo nella musica. Tu non puoi scrivere un testo dicendo “Mi sono svegliato
e sono andato a Roma”, ma devi esprimere lo stesso concetto in modo poetico,
adoperando le parole giuste. In molti casi siamo più avanti dal punto di vista
compositivo che da quello dei testi: eppure se ti vai a leggere i testi dei
gruppi storici italiani, prendi Le Orme o il Banco del Mutuo Soccorso, ti rendi
conto che avevano un alto livello poetico che si accompagnava all’alto livello
musicale. Purtroppo, i gruppi prog italiani di oggi quel livello non l’hanno
ancora raggiunto.
Ritorniamo
alla tua produzione, passando all’ultimo album, “HORIZONTAL RAIN”…
Sì,
prima volevo aggiungere ancora una “chicca”: il produttore di quest’ultimo album,
ma anche di quello su Bob Dylan, di COVER LIVE e MASTER POETS, era
Dario Mazzoli, un musicista che ha suonato per un certo periodo come bassista di
Elio e le Storie Tese con il nome d’arte di Scaffale. Poi c’è stato il disco con
cui ho celebrato i miei quarant’anni di attività; prima ancora il lavoro con i
Mangala Vallis con Gigi Cavalli Cocchi e Cristiano Roversi e il ritorno degli
Acqua Fragile (l’album “A NEW CHANT”, del 2017, edito per l’inglese Esoteric
Antenna).
Gigi
Cavalli Cocchi che troviamo anche in “HORIZONTAL RAIN”…
Gigi
è un bravissimo illustratore e grafico, oltre che musicista. Quando gli affidi un
lavoro per una copertina sei sicuro che venga realizzato al top, e non è una
cosa facile fare una copertina di un album: anche in questo caso ha fatto un ottimo
lavoro.
Come
è nato il titolo dell’album?
L’ho
scelto perché, pur essendo in inglese, è alla portata di tutti: la pioggia
orizzontale. Quando capita è una cosa che non ti aspetti: ti chiedi cosa fare e
intanto l’acqua ti va in bocca, ti sbatte contro le pareti, ti trovi
impreparato. Però devi reagire per poter andare avanti e superare lo shock.
Il dipinto di copertina è di Lanzetti
Quindi
mi pare di capire che ci sia una correlazione con il periodo di pandemia che
stiamo vivendo…A
dire il vero il titolo l’ho deciso un paio di anni fa. Però è anche vero che la
pandemia ci ha preso alla sprovvista come una pioggia orizzontale, perché
quando si pensava
ai pericoli per il mondo si pensava a un’esplosione atomica, all’inquinamento o
al crollo delle borse, ma nessuno immaginava un virus piccolissimo che avrebbe
colpito tutti.
Nel
nuovo album i testi di due canzoni sono stati scritti da Peter Jack Marmot…
Marmot
non è un semplice paroliere, io lo definisco un fabbro di parole: lui è stato
un coach manager, ci unisce la passione per Bob Dylan. Anzi lui è più di un
appassionato: mi ha raccontato che a volte si sveglia di notte chiedendosi cosa
avrà voluto dire Dylan in una tal canzone o in un’altra, sveglia la moglie Caroline
e glielo chiede. Un giorno ci siamo riproposti di fare qualcosa insieme, e
quindi abbiamo scritto una serie di brani per un nostro progetto, ma due di
essi erano particolarmente forti, Heck Jack e Genial!, che si
pronuncia alla spagnola, “geniàl”, e così li ho inseriti nell’album. Le musiche
invece sono tutte mie, così come quasi tutti gli arrangiamenti.
Bernardo con Peter
Jack Marmot
In
che senso “quasi tutti”?
Prendiamo
Walk away, che apre il disco e che ha delle parti in 6/8 e la struttura centrale
che è in 11/8. Quando ho inviato il materiale a Jonathan Mover, il batterista,
mi ha detto: “Senti Bernardo, io avrei pensato di fare la batteria a un certo
punto in 4/4”, e ho accolto l’idea. Per quanto riguarda Andrea Cervetto, il
chitarrista, e la corista australiana, Kim Chandler, che ha cantato nel disco
dal vivo degli Uriah Heep e ha suonato il flauto, ho scritto tutte le frasi
musicali e loro le hanno eseguite al meglio, aggiungendo però le loro idee.
Lanzetti
immerso nella pittura, una delle sue passioni
L’album
è stato registrato in molti studi differenti, Los Angeles, Londra, Milano e
altri ancora, ma ha comunque un’uniformità a livello sonoro, sembra che i brani
siano stati registrati tutti nello stesso studio…
Sì,
questo è dovuto un po’ all’esperienza del sottoscritto e un po’ ai tecnici che
ogni giorno registrano materiale diverso, e in questo modo continuano a
imparare, per cui quando gli chiedi qualcosa sanno benissimo come ottenerla.
Un
brano che mi è sembrato interessante è “Lanzhaiku”, in cui la melodia ha dei
rimandi alle musiche orientali…
Ti
spiego com’è nato questo brano. Qualche anno fa ho avuto la fortuna di
incontrare Pete Sinfield, e in quell’occasione avevo notato che si cimentava
con questi haiku, dei brevi componimenti di tre versi. Ho quindi pensato di
isolare tre frasi con cui fare una strofa. Di solito nel rock, ma anche nella
musica leggera, le frasi di una strofa sono pari; in questo caso avendo scritto
tre versi, quindi una strofa dispari, ho composto la musica in 3/4, ma per non
farlo sembrare un valzer l’ho
arrangiata mascherando il tutto. Se lo ascolti alla fine non si capisce che è
un tre quarti.
In
questo brano c’è un ospite illustre, David Jackson dei Van der Graaf Generator…
Sì,
che contribuisce al mascheramento, perché la parte del contrabbasso è suonata
dal suo sax baritono. Che poi in quale disco si usa mai il sax baritono? Ho
cercato di non utilizzare sonorità scontate, visto che anche la struttura del
brano non è scontata.
L’unico
testo in italiano è “Ero un numero”…
Che è
vagamente palindromo scritto così. È un esperimento che parte dal fatto che i
numeri sono nove, a parte lo zero, e che tutti gli altri sono una combinazione
di questi nove, e la musica è legata ai numeri, come è evidente pensando ai
vari tempi o al valore delle note: 1/4, 1/8, 1/16 e così via: si potrebbe quasi
dire che se sai contare sai anche fare musica. Ho scritto una sequenza di
numeri che, a mio avviso, riportandoli su un asse e unendo i punti
rappresentava quasi la figura di un pesce. Poi ho contattato due musicisti, non
faccio nomi, per scrivere la musica: uno mi ha detto subito di no mentre
l’altro prima mi ha detto di sì ma poi in fase di realizzazione si è tirato indietro;
alla fine ho deciso di scriverla io. Ho utilizzato un’accordatura aperta, “re
la re la la re”, e quello è quando dico uno, mentre quando sposto il barré sul
primo tasto è due: il testo dice “Uno nove due otto” e segue lo spostamento del
dito sui vari tasti, e così procede l’armonia. Questa è la parte della
chitarra, poi ho scritto le parti strumentali. È una cosa strana ma funziona, così
almeno mi ha detto un mio amico compositore di musica classica. A
quel punto ho scritto il testo, e visto che ho giocato coi numeri, il testo
parla di un numero: “Ero un numero che non contava”, un numero che nel finale esce
dalla sua solitudine per fuggire con una cifra tonda, con un po’ di ironia. Il
risultato è un brano sperimentale, però alla portata di tutti: non è fischiettabile,
ma non è nemmeno dodecafonico o atonale.
Un
altro ospite importante presente nel disco è Tony Levin…
Quando
ho fatto sentire a Jonathan Mover Heck Jack, mi ha detto: “Qui ci vorrebbe
un basso stick come lo suona Tony Levin”. Io gli ho risposto che era una bella
idea, ma che non sapevo come contattarlo. E lui: “Non ti preoccupare, ha detto
sì”. In pratica Jonathan l’aveva già contattato per conto suo e glielo aveva
chiesto, mi ha messo di fronte al fatto compiuto. Tony aveva tre giorni liberi
e ha registrato la sua parte. A quel punto abbiamo aggiunto i fiati veri,
chiamando Giancarlo Porro, Carlo Napolitano e Marco Brioschi, al posto di
quelli sintetici che erano presenti inizialmente.
Bernardo
insieme a Tony Levin
Un
altro brano che mi è piaciuto molto è “Conventional”, con l’inizio lento con le
tastiere e poi l’arpeggio di chitarra classica…
È
un’aria, più che una canzone: è tutta in 7/4 e questo crea una specie di
sospensione, non si appoggia mai, il tempo dispari non ti permette mai di
sederti, stai sempre in movimento. È uno di quei brani di cui vado orgoglioso e
che dimostra che si possono scrivere melodie belle con un tempo che non sia il
solito 4/4. Fare questo tipo di esperimenti è fare prog.