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mercoledì 31 maggio 2017

Parallelismi: Lanzetti e suoi “Numi Tutelari”, di Alberto Sgarlato


Parallelismi: Lanzetti e suoi “Numi Tutelari”

di Alberto Sgarlato

Quando si parla di cantanti italiani che hanno lasciato un segno indelebile nel rock prodotto nella nostra nazione indubbiamente uno dei primi nomi che salta alla mente è quello di Bernardo Lanzetti. Per innumerevoli motivi, certo, che vanno dalla tecnica alla bellezza timbrica, ma soprattutto perché ha svolto un ruolo davvero pionieristico nell’allontanare le sonorità della “musica leggera italiana” (all’epoca la si chiamava così) da quell’alone di provincialismo che fino a quel momento l’aveva contraddistinta, per importare stili e modelli all’epoca davvero inediti (frutto anche delle esperienze da lui accumulate all’estero). Inoltre, mentre altre bands di prog-rock italiano facevano “anche” i dischi in inglese (affidandosi anche a parolieri illustri, come Pete Sinfield dei King Crimson nel caso della PFM), traducendo brani già editi in italiano, o inserivano un’alternanza di tracce in inglese e in italiano (si pensi a “L’Uomo” degli Osanna), Lanzetti sceglieva coraggiosamente l’idioma d’Oltremanica come mezzo comunicativo d’elezione. Ma nell’esaminare la carriera di un artista non si può prescindere da un’attenta analisi dei predecessori che maggiormente l’hanno influenzato: del resto ogni forma d’arte, ogni espressione creativa è, a suo modo, frutto dell’evoluzione di linguaggi precedenti. Così come Chris Squire degli Yes non ha mai nascosto la propria ammirazione per John Entwhistle degli Who e Keith Emerson ama citare i compositori russi e dell’Est Europeo a cavallo tra ‘800 e ‘900, solo per fare un paio di esempi, ovviamente anche Bernardo Lanzetti, nelle sue esecuzioni vocali, lascia trasparire delle affinità con altri cantanti che hanno lasciato un segno tangibile nella storia del rock.
E parlando di Lanzetti, ovviamente, il primo nome che viene in mente è quello di Peter Gabriel nel suo periodo con i Genesis. Se lo ascoltiamo attentamente, il primo elemento caratteristico di Gabriel è la dizione, davvero particolare. Nelle sue strofe, parole anche apparentemente comuni assumono toni ieratici in base a come vengono pronunciate. Le vocali sono sempre lunghe e aperte, sembra quasi che “L’Arcangelo” (come veniva soprannominato in Italia negli anni ’70, per via del suo cognome) queste vocali le “arrotondi” in bocca, tenendole calde per poi farle esplodere incidendo drammaticità. Facendo un paragone con un altro grandissimo del suo tempo, anche Peter Hammill ha queste vocali lunghe, ma il leader dei Van Der Graaf invece le scandisce, secche, violente, usandole come trampolino di lancio per certe consonanti, come le nasali (fate caso a come Hammill pronuncia la parola “alone”, quasi un suo marchio di fabbrica). Per questo Hammill è poco accomunabile a Lanzetti: il cantante dei VDGG è più oscuro ed inquietante nelle sue interpretazioni. In Gabriel, al contrario, queste vocali “rotonde” addolciscono (all’opposto che in Hammill) anche le consonanti: la L o la S trema, quasi incerta, nella sua voce, contribuendo a quel tocco di malinconia di certe atmosfere. Chi ha visto dal vivo le più fedeli tribute-band dei Genesis avrà notato che tutto ciò impone nei cantanti-clone un certo sforzo muscolare: per riprodurre la scansione del cantante di riferimento i suoi emuli sono costretti a contrazioni del viso, tensioni delle labbra e delle guance. Ciò avviene non solo nei tributi, ma anche in certe bands di new-prog che si impongono di riproporre in tutto il modello gabrielliano, si pensi a nomi come i Citizen Cain o gli Agents of Mercy.  Tutto questo in Bernardo Lanzetti non è affatto vero: le sue interpretazioni vocali sono spontanee, naturali, prive di ogni forzatura. E pare quindi che certe sue similitudini con uno dei cantanti più amati del prog-rock siano un vero dono di natura. Negli Acqua Fragile sono soprattutto le costruzioni chitarristiche più acustiche e gli arpeggi dell’organo a sottolineare una parentela con i momenti più delicati dei Genesis, quelli di “Trespass” e di “Nursery Cryme”. Nell’album “Chocolate Kings” della PFM, che ci propone invece per molti tratti un Lanzetti più rock, succede una cosa strana: riascoltando oggi la title-track balzano subito alla mente delle similitudini con Fish, l’ex-cantante dei Marillion, che però, rispetto al disco della PFM, giungerà agli splendori della ribalta quasi 10 anni dopo! Che sia Fish ad aver ricevuto una mai dichiarata influenza di Lanzetti? Non a caso spesso l’ex-leader dei Marillion è stato definito, soprattutto a inizio carriera, il Nuovo Gabriel. Ma qui c’è un ulteriore elemento di sorpresa: Fish, infatti, è scozzese di Edimburgo, quindi siamo di fronte ancora a un altro tipo di pronuncia. Dalla fine dell’esperienza con la PFM in poi, per la verità, Lanzetti si è sempre più affrancato dall’influenza gabrielliana, “rispolverandola” soltanto in tempi recentissimi con il progetto CCLR, complici i crescendo di mellotron dell’ottimo Cristiano Roversi, che in più di un caso tradiscono una devozione verso Tony Banks. Ma ritorniamo in Italia. E parlando di rock, di Italia, ma soprattutto di voce, non si può non citare Demetrio Stratos che, nonostante fosse un greco nato in Egitto, quando ha sfondato come cantante era da tempo naturalizzato italiano. Nell’arte in generale e nella musica in particolare è sempre abbastanza insensato e anche piuttosto brutto parlare di “il disco più bello” o “il musicista più bravo”, perché non è giusto fare delle gare laddove entrano in ballo criteri di emotività, sentimento, soggettività. Ma stavolta, dicendo che Demetrio Stratos è stato uno dei più grandi cantanti al mondo, non si deve aver paura di sbagliare o di esagerare: da un punto di vista tecnico, infatti, Stratos è riuscito a portare avanti esperimenti sulla diplofonia (controllare le diverse vibrazioni delle corde vocali in modo da generare più suoni simultanei) e sull’estensione dal sovracuto al gravissimo che in pochi altri al mondo hanno condotto (tra cui l’americana Diamanda Galas, guarda caso anch’essa di origine greca… che ci sia l’aria buona per la voce, da quelle parti?), mentre sotto l’aspetto interpretativo un po’ di Stratos c’è in tutti i cantanti italiani venuti dopo di lui. Bernardo Lanzetti da Stratos ha saputo imparare la sobrietà. In che senso? Nel senso che Stratos nelle sue interpretazioni più melodiche (non in quelle sperimentali) era sempre molto enfatico nel suo cantato. Ma sapeva esserlo con gusto e con un grande senso della misura. Tutti quelli che sono venuti dopo, attingendo da questa fonte, hanno esagerato risultando così spesso sgraziati, innaturali o persino al limite della caricatura (avrei in mente diversi paragoni, ma non voglio querele…). Lanzetti ha avuto l’intelligenza e la sensibilità di cogliere le sfumature di pathos (parola greca!) di Stratos (scusate la rima) restando sempre entro i limiti più consoni.
La storia del rock è fatta di artisti che entrano nel cuore di tutti e di altri che, chissà perché, conquistano più l’interesse degli “addetti ai lavori”, cioè di chi fa musica, più che del grande pubblico. Questo è un po’ il caso di Roger Chapman, cantante inizialmente dei Family e poi di diversi altri progetti solisti. Da “Chappo” il nostro Bernardo Lanzetti ha acquisito le componenti più “acide” della sua voce: l’uso del tremolo soprattutto sulle note lunghe e sui toni alti e un graffiato nella voce che rende Lanzetti (come lo stesso Chapman) più vivacemente “black” rispetto ad altri artisti del prog italiano, nei quali la componente della musica nera era ben più irrilevante. Del resto Bernardo è uno che da ragazzo in America accendeva la tv (lo racconta lui stesso) e scopriva la magia del soul, del rhythm’n’blues, delle cantanti che ballavano scatenate davanti alle telecamere, mentre in Italia avevamo ancora il Sanremone in bianco e nero con i Claudio Villa in giacca e cravatta. Era inevitabile che, in quel boom d’amore che la nostra nazione negli anni ’70 tributava al rock progressivo, Lanzetti riuscisse a instillare gocce di sound nero, come del resto in Inghilterra facevano i Traffic, i Colosseum e, appunto, proprio i Family di Roger Chapman.
Ma c’è ancora un “outsider” che merita di essere citato come ispirazione, consapevole o inconsapevole, di Bernardo Lanzetti: quando si parla di Gentle Giant viene quasi sempre messa in luce la loro impressionante abilità di polistrumentisti, o la perizia nel costruire armonie vocali ineccepibili, e ingiustamente si trascurano le loro ottime doti timbriche come solisti. Eppure erano cantanti di grande carisma interpretativo, soprattutto Derek che, fra i tre fratelli e il tastierista Kerry Minnear, anche lui cantante solista, era quello più “nero”. Non a caso Derek era stato, da giovanissimo, cantante solista proprio di una soul e rhythm’n’blues band, che si chiamava Simon Dupree & the Big Sound e questo suo amalgama di grinta da soul-singer ed enfasi interpretativa tipica del prog lo si può ritrovare anche in Lanzetti. Non ci credete? Provate ad ascoltare in sequenza la seconda parte di “Peel the paint” dei Gentle Giant, su “Three Friends”, quella più dura, cantata proprio da Derek (mentre l’intro, più intimista e meditativa, la canta Phil), e poi ascoltate “Comic Strips”, degli Acqua Fragile: il mood che attraversa i brani è lo stesso, la carica di rabbia infusa da Lanzetti nelle sue parti soliste è vicina alle impennate shulmaniane e le armonie vocali regalano costruzioni non poco vicine a quelle dei Gentle Giant.


lunedì 10 agosto 2015

Lanzetti/Roversi “Quasi English”, di Alberto Sgarlato


Lanzetti/Roversi -“Quasi English”
(2015)
Di Alberto Sgarlato

Articolo apparso sul numero di agosto di MAT2020

I nomi di Bernardo Lanzetti e di Cristiano Roversi tornano finalmente a incontrarsi. Entrambi possono vantare un bagaglio di collaborazioni davvero vasto, ma vengono ricordati soprattutto il primo per gli Acqua Fragile e una breve permanenza nella PFM, il secondo per i Moongarden.
Due nomi così ovviamente danno adito a un album che è puro miele per le orecchie degli appassionati di rock progressivo. Nella traccia iniziale, che dà il titolo all’album, scopriamo fin dalle prime strofe che la voce di Lanzetti migliora costantemente con gli anni (e, anzi, avrebbe meritato una presenza ancora maggiore nel mixaggio). Questo brano dal titolo così strano sembra quasi un “pastiche” scherzoso, un po’ alla Frank Zappa, complici anche i “botta & risposta” corali da parte dei Catafalchi del Cyber (altro progetto roversiano), ma la melodia vocale è sorretta da un massiccio supporto armonico chitarra/organo che nelle prime note inevitabilmente evoca i Genesis dell’Era-Gabriel, mentre le escursioni soliste delle tastiere sono più emersoniane. Stessi ingredienti nella successiva “Worn to a shine”; a proposito di queste prime due tracce, è doveroso segnalare in esse la presenza di due veri “Pezzi da 90” del prog-rock moderno: alle chitarre Fabio Serra, che con i suoi Røsenkreütz ha partorito un annetto fa quel capolavoro che è “Back to the stars”, mentre alla batteria troviamo Jonathan Mover, già collaboratore di Hackett e Howe nei GTR e per un brevissimo periodo anche nei Marillion (tra l’uscita di Mick Pointer e l’arrivo di Ian Mosley). Oltre a loro, una mezza dozzina di eccelsi strumentisti hanno collaborato alle varie tracce dell’album, che si accinge già a diventare un “classico di domani” del rock progressivo; “Heartsick clever” è un momento acustico davvero commovente, di quelli che toccano proprio le corde dell’anima, mentre il pianismo nervoso di “Latitude aloud” ci porta su coordinate tra Banco e ELP; “Convenience” è una scelta coraggiosa, in quanto va a ripescare un brano per nulla scontato dei Gentle Giant, qui rivisitato in una modernissima e ardita chiave metal-prog; “Scorre l’acqua” è l’unica traccia totalmente in italiano, mentre “Bel Canto” in italiano lo diventa, dopo una introduzione in inglese: entrambi i brani hanno un incedere davvero operistico, con le orchestrazioni ricostruite con il Mellotron. La conclusiva “Have no standing” ci riporta alle atmosfere delle prime due tracce, cioè a quel prog segnato dalla maestosità genesisiana. Parafrasando il titolo si può dire che Roversi ha scelto una strumentazione “Quasi Vintage”: pressocchè assenti, o ridotti al minimo, i sintetizzatori, per dare ampio spazio a piano, organo Hammond e Mellotron.
Un disco in cui la ricchezza degli arrangiamenti e la complessità strutturale sposano la melodia nel modo più riuscito.