Nel
n. 38 di PROG ITALIA è proposta una lunga
intervista di Vito Vita a Bernardo Lanzetti.
L’articolo
viene riportato fedelmente a seguire, per gentile concessione di Guido
Bellachioma.
Curioso
il fatto che nell’articolo che cronologicamente precede quello di Lanzetti,
dedicato a Claudio Fabi, un paio di fotografie riportino ancora a
Bernardo immortalato con la PFM.
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Nulla
è impossibile
Il
nuovo album solista di Bernardo Lanzetti,
HORIZONTAL RAIN, è il manifesto di
un artista che ha sempre fatto della voglia di esplorare e dell’ecletticità la
principale vocazione artistica.
In un’intervista agiografica, il cantante e compositore di Casalmaggiore si sofferma con dovizia di particolari sull’intero arco della sua carriera.
Bernardo
Lanzetti è la voce impossibile del prog italiano.
Dall’esordio
con Gli Immortali all’inizio degli anni Settanta, fino all’approdo nella Premiata
Forneria Marconi di CHOCOLATE KINGS, passando per i tre album degli
Acqua Fragile e per la sua carriera solista, la sua cifra stilistica è sempre
stata chiara ed evidente: spingersi oltre le consuetudini e le imposizioni
della musica rock, abbracciando e coniugando tra loro generi e suggestioni
differenti.
Autore
e compositore intelligente e raffinato, anche per altri artisti italiani come Loredana
Bertè e Ornella Vanoni, nel nuovo album solista, HORIZONTAL RAIN, Lanzetti
fornisce una summa delle sue straordinarie capacità di cantante e autore, coadiuvato
da una serie di ospiti prestigiosi tra cui spiccano Tony Levin (King Crimson, Peter
Gabriel), Jonathan Mover (GTR, Satriani), David Cross (King Crimson), David
Jackson (Van der Graaf Generator, Osanna), Tony Franklin (Roy Harper, The Firm)
e Derek Sherinian (Dream Theater, Planet X, Sons of Apollo).
L’intervista di Vito Vita
Sicuramente i lettori di «Prog Italia» sanno già chi è Bernardo Lanzetti: però se sei d’accordo, prima di parlare del nuovo disco, ripercorrerei ugualmente la tua carriera…
Certamente. Partendo dal primo gruppo con cui sono entrato in sala di registrazione, la mia attività musicale inizia con gli Acqua Fragile. Nel 1970 avevo incontrato Mauro Pagani, che suonava in un gruppo che si chiamava Dalton, mentre invece io cantavo in un’altra band, Gli Immortali. Facevamo cover inglesi e americane, e con Mauro avevamo fatto una chiacchierata a proposito dei locali della zona in cui era possibile suonare: come li trovavamo, come funzionavano i contatti, quanto pagavano e cose così… confrontavamo il loro budget con il nostro, per allinearci sulle richieste. Poi nel 1971 l’ho rivisto sul palco con la Premiata Forneria Marconi, a Bologna, prima ancora che incidessero il loro primo album: aprivano il concerto dei Deep Purple. Abbiamo chiacchierato nuovamente e, di lì a qualche mese, con Gli Immortali, abbiamo fatto da spalla alla Premiata in un loro concerto, in cui però proponevano ancora quasi tutte cover, King Crimson e Jethro Tull per lo più. In quell’occasione Mauro e Franco Mussida, che avevo conosciuto, ci dissero che dal punto di vista musicale avevamo un forte potenziale ma che secondo loro c’erano due musicisti, che erano quelli più anziani, che appartenevano a un’altra generazione e che avrebbero dovuto essere sostituiti, in maniera tale da poter elaborare qualcosa di originale. Quindi alla fine del 1971 noi tre, il batterista Piero Canavera, il chitarrista Gino Campanini e io, decidemmo di formare un nuovo gruppo, appunto gli Acqua Fragile, chiamando con noi il bassista Franz Dondi, che veniva da I Moschettieri, un gruppo beat con cui aveva inciso un 45 giri, e il tastierista Maurizio Mori. A quel punto iniziammo a preparare del materiale originale e a proporlo dal vivo, senza perdere i contatti con la Premiata, soprattutto con Franco, che in qualche modo riuscì a farci fare un provino alla Ricordi, con Sandro Colombini, che però non andò bene.
Quindi prima di registrare l’omonimo album di esordio con la Numero Uno: curioso, visto che poi per la Ricordi avete inciso qualche anno dopo…
Sì, ma nel frattempo erano successe altre cose. Continuammo a suonare dal vivo prima della Premiata, facendo da spalla nei loro tour, soprattutto nel meridione, e così dopo qualche tempo ci misero in contatto con la Numero Uno. In pratica convinsero il loro produttore, Claudio Fabi, a lavorare anche per noi. In questo modo è nato il nostro primo album omonimo, pubblicato nel 1973. C’è stato un bell’impegno da parte della Premiata, che evidentemente ci apprezzava, in particolare devo dire da parte di Franco Mussida.
Poi però il secondo album, “MASS MEDIA STARS”, l’avete pubblicato con la Ricordi, non più con la Numero Uno: come mai?
Quando portammo MASS MEDIA STARS a Claudio Bonivento, il produttore cinematografico che era il direttore artistico della Numero Uno, non ebbe il coraggio di dare un giudizio e decise di girarlo al capo dell’Ufficio Contabile, Antonio Coni, un romano che si era trasferito a Milano. Arrivava dalla RCA, dove evidentemente era abituato ad altre musiche. Lo ascoltò e disse: “Ahò, ’sto disco me fa venì er mal di testa…”. Era una brava persona, per carità, ma assolutamente inadatto a dare un giudizio su un gruppo italiano che faceva prog in inglese.
A quel punto Claudio Fabi ci disse che aveva un gancio con la Ricordi e provò a proporre il disco a loro che, in questo caso, ci misero sotto contratto, al contrario di quello che era successo qualche anno prima. Pubblicammo MASS MEDIA STARS con loro alla fine del 1974. La cosa curiosa è che oggi, con tutte le varie acquisizioni, incorporazioni, chiusure delle varie etichette italiane e via dicendo, tutti e due gli album incisi negli anni ‘70 dagli Acqua Fragile sono di proprietà della Sony.
Bernardo in chiave “Facevox”, come ha definito lui queste foto
Dopo questo secondo album però si conclude l’esperienza degli Acqua Fragile perché tu entri come cantante nella Premiata Forneria Marconi…
Sì, la Premiata, diventata nel frattempo PFM per conquistare il mercato anglofono, ebbe l’input dai manager e dai discografici americani di prendere un cantante di ruolo per poter continuare a suonare in America: il fatto è che loro, pur sapendo cantare, non avevano una vera e propria voce solista, diciamo che il canto era un po’ il loro punto debole. Quando mi contattarono, MASS MEDIA STARS era appena uscito, quindi chiesi una settimana di tempo per dare una risposta.
Loro si risentirono, diciamo pure che si offesero, e allora si indirizzarono su un altro cantante che conoscevano, ovvero Ivan Graziani. Ivan non era ancora famoso come cantautore, anche se erano anni che suonava. Fecero un po’ di prove insieme, andarono anche a Londra per un concerto portando Ivan con loro, ma a un certo punto ebbero un ripensamento, forse anche dopo aver sentito l’opinione di qualche discografico, e mi richiamarono dicendo che dovevo entrare subito nella band. Io risposi che era da sei mesi che stavano lavorando con Ivan e inoltre sapevo che entro pochi giorni sarebbero dovuti entrare in studio, ma loro mi risposero che proprio per questo motivo il mio coinvolgimento era urgente. Per Ivan Graziani fu una fortuna, dato che in questo modo poté concentrarsi sulla sua carriera solista: non credo che le sue ballate si sarebbero potute integrare facilmente nel suono della PFM.
Quindi entri nella PFM e vai subito in sala per registrare le parti vocali di “CHOCOLATE KINGS”, pubblicato nel 1975…
Sì, prima però abbiamo dovuto verificare le tonalità dei brani, perché Ivan, che era molto dotato vocalmente, aveva questa voce particolare in falsetto, da contralto. Con Flavio Premoli andammo a casa di Mussida, che era diventato in quel periodo papà di due gemelli: mi ricordo che provando il primo pezzo iniziai a cantare e Mussida mi fermò: “No, non così forte che poi i vicini di casa ci fanno delle storie”. Allora presi un cuscino del divano e proseguì le prove cantando dentro al cuscino. Il problema è che mi mancava una nota, non riuscivo a prendere un SI. Glielo feci presente, ma Mussida rispose: “Ma sì, vedrai che poi ce la fai”. Tornato a casa mi esercitai per prendere quella nota, e alla fine ci riuscii. Anzi, da quel momento in poi sono salito ancora riuscendo a prendere il DO, intendo il DO di petto non il DO di testa, il DO diesis e il RE. Con la voce di testa riesco ad arrivare ancora più in alto. Adesso ho più di tre ottave di estensione vocale, ma non le uso tutte perché non so cosa farne.
Con la PFM, dopo “CHOCOLATE KINGS”, hai inciso “JET LAG” (1977) e poi “PASSPARTÙ” (1978). Un album particolare perché è stato il primo tentativo da parte del gruppo di avvicinarsi alla canzone d’autore, visto che i testi, tutti in italiano al contrario dei due dischi precedenti, sono di Gianfranco Manfredi…
Direi che quel disco sancisce la rinuncia della PFM al mondo angloamericano. Quando eravamo ancora negli Stati Uniti, precisamente a Los Angeles, fu messo ai voti se ritornare in Italia o meno: io votai contro, insieme a Flavio Premoli, mentre Mussida, Djivas e Di Cioccio erano a favore. Il voto di Premoli mi sorprese, perché non era mai stato un grande amante dell’esperienza estera, ma in realtà in America aveva avuto molte soddisfazioni personali: c’erano un sacco di musicisti che venivano a vederci sostanzialmente per ascoltare lui e Franco Mussida. Ti parlo di gente come i Return to Forever di Chick Corea, di Jaco Pastorius…, insomma nomi importanti, questo perché Flavio era in grado di improvvisare ogni sera e rendere sempre le esecuzioni dei pezzi diversi in ogni concerto, così come anche Franco. Invece con PASSPARTÙ si decise di fare un disco in italiano, per l’Italia, anche musicalmente italiano, e io fui esautorato dai testi. Ci fu solo un brano che aveva un mio testo, Fantalità: entrò nel disco grazie alla moglie di Franco Mussida, che si batté affinché fosse incluso, una cosa particolare: ricevetti un aiuto al di fuori della band.
Quindi possiamo dire che il fatto che poi hai abbandonato la PFM è stato dovuto anche all’esperienza negativa di “PASSPARTÙ”?
Ha influito sicuramente, ma c’è stata una concomitanza di fattori: la fine dell’esperienza americana, il fatto che volevano tornare all’antico e fare i provini dei brani, cosa che ultimamente non avevano più fatto perché solitamente i provini si fanno per capire come arrangiare le canzoni, ma non per i pezzi prog in cui si suona insieme buttando giù le idee che poi si rifiniscono in sala di registrazione, mettendo a posto le varie parti dei brani. Io in quel periodo mi influenzai e quindi non andai con loro in studio. Quando guarii e andai a Milano per ascoltare il tutto, scoprii che avevano usato delle tonalità che non erano le mie, troppo basse. In più c’erano alcune tracce in cui la voce non era prevista… insomma, avevano lavorato come se io non ci fossi.
A quel punto un brano lo cantò Mussida, un altro rimase strumentale, un terzo lo cantai io ma con la voce che sembrava provenire da una cantina… insomma, PASSPARTÙ non è un disco adatto a un vocalist. Se poi non ci si sforza nemmeno di trovare le tonalità giuste per il cantante, è evidente che non ci sia la volontà di lavorare insieme. Quindi per me sono maturati i tempi di lasciare la band e di tagliare con il passato. Aggiungi poi che dopo PASSPARTÙ il loro progetto successivo era quello di accompagnare dal vivo De André, in cui per ovvii motivi non era contemplata la mia partecipazione…
Certo, immagino che a quel punto fossi già fuori…
Ho partecipato solo a qualche incontro all’inizio, il primo in Sardegna dopo un nostro concerto e poco altro.
Infatti, l’anno dopo “PASSPARTÙ” firmi con una nuova etichetta, la Ciao Records, e pubblichi il tuo album di debutto “KO”, seguito nel 1980 da “BERNARDO LANZETTI” e poi nel 1981 da “GENTE NERVOSA”, in cui prendi la strada di un rock in italiano con suoni più duri rispetto a quelli della PFM…
Tutto esatto, anche se bisogna dire che delle canzoni c’erano anche le versioni in inglese, pubblicate negli album HIGH ROLLER (1979) e NO LIMITS (1981), quindi rock cantato in italiano per l’Italia, ma con un respiro internazionale. Era quella che sentivo essere la mia strada in quel momento. Solo che il destino degli artisti italiani è diverso da quelli del mondo angloamericano: un musicista inglese fa un disco e questo automaticamente è pubblicato in contemporanea in una cinquantina di Paesi così com’è, senza bisogno di essere ricantato in un’altra lingua, mentre a noi va già bene se esce in Italia. Capisci l’eccezione della PFM, e di come abbiano buttato al vento un’occasione? Avevano ottenuto la possibilità di essere alla pari con i gruppi angloamericani, cioè di pubblicare con la Manticore ogni loro disco in contemporanea in tutto il mondo, cantato in inglese con la stessa promozione riservata agli artisti d’oltreoceano: questo era il contratto che avevano ottenuto! Un’occasione buttata via. Per motivi rispettabili, certamente.
Allontanandoci per un attimo dal prog e spostandoci sulla musica leggera: nel 1984 una tua canzone, “Una sera che piove”, viene incisa da Loredana Bertè diventando il brano di punta del suo album SAVOIR FAIRE. Come è nata questa collaborazione?
È nata perché in quel periodo frequentavo Ivano Fossati, eravamo entrambi alla CBS. Ho anche collaborato al suo album VENTILAZIONE, sempre nel 1984. Mi interessavo molto ai suoni elettronici e avevamo trovato questo punto comune: anche lui aveva questi interessi e così sul suo disco ho suonato questi strumenti, sequencer, synth. Una volta era andato a Bologna a comprarsi una nuova tastiera, ma non era molto convinto: il giorno dopo gli telefonai e mi raccontò che era andato lì per comprarla ma poi, passando davanti a un negozio, aveva visto in una vetrina un bel soprabito e alla fine aveva comprato quello invece della tastiera. Comunque, in quella occasione mi disse che stava per produrre il nuovo album di Loredana Bertè, JAZZ, e che avrebbe voluto un pezzo mio, ma gli serviva in fretta perché dopo due giorni dovevano partire per Londra, dove avrebbero registrato. Io avevo già qualche brano di cui avevo fatto il provino su cassetta, glieli mandai subito. Dopo qualche tempo, Ivano mi disse che avevano scelto “Ho chiuso col rock’n’roll”, che io avevo appena pubblicato nel mio disco del 1982. Per il successivo album di Loredana, Ivano mi disse che dovevo scrivere un pezzo appositamente. Una sera ero con i Volpini Volanti, dei fratelli Beppe e Piero Gemelli - morti da poco entrambi - Franco Cristaldi e Betty Vittori, e abbiamo deciso di fare un giro per Milano. Stava piovendo, siamo andati in un bar dove c’era Loredana che si stava baciando con il suo ragazzo dell’epoca: io presi nota della situazione, Milano in macchina una sera che piove, tutti che guardavano Loredana, e da questo punto di partenza scrissi la canzone. La registrarono e Ivano mi disse che secondo lui questo brano mi avrebbe portato fortuna, e così fu. La prima volta che andai a vedere dal vivo Loredana chiesi ad Aida Cooper, che era la corista, se il brano fosse in scaletta e mi rispose: “Certo, lo facciamo sempre”. Grazie al successo della canzone Ivano mi coinvolse anche per un album di Ornella Vanoni.
Per il disco “O”, del 1987, che infatti era prodotto da Fossati…
Sì, andò allo stesso modo: io gli portai i brani, che però erano musicalmente un po’ più complicati, specialmente a livello di ritmica. In particolare, ce ne furono due che gli piacquero: il primo si chiamava Non andare via e il secondo Ombre in attesa: Ivano mi disse che però Ornella mi voleva in studio quando avrebbe preparato i provini. Io andai in studio e la trovai vestita molto rock, con gli stivali borchiati, il giubbotto di pelle, e mi disse che voleva che la tenessi per mano quando avrebbe registrato la voce per darle coraggio, visto che erano pezzi difficili.
Altri aneddoti?
Ce n’è un altro divertente con Loredana: ci siamo visti a Londra, lei stava registrando un album con alcuni musicisti americani e la sera fummo invitati a una mega festa dei Thompson Twins, in una villa in campagna fuori Londra. In macchina con Loredana c’era un tastierista americano. A un certo punto ci siamo persi, era tutto buio, finché abbiamo visto un’enorme mongolfiera illuminata, che segnalava il punto dove stava la villa. Ci siamo inoltrati lungo questa strada di campagna, ma quando siamo arrivati c’era un tizio della security, con una giacca color amaranto, che ha fermato l’auto chiedendo l’invito. A questo punto il tastierista americano ha tirato fuori il braccio dal finestrino e ha detto: “Io vengo da New York e non accetto domande di merda da te”. Ho pensato che sarebbe scoppiata una rissa, invece si spostarono e ci fecero passare. Nella villa come puoi immaginare c’era di tutto, c’era persino un gruppo che faceva musica da camera e c’era anche la coda per andare nel bagno delle donne. Allora Loredana si è diretta verso quello degli uomini, che l’hanno subito fatta passare avanti.
A un certo punto, verso la metà degli anni ‘80, hai lasciato la CBS: come mai?
Ivano aveva deciso di produrmi, perché la CBS non mi rispondeva più nemmeno al telefono e allora mi disse: “Senti Bernardo, se vuoi posso provare io a produrre il tuo nuovo album”. Passò qualche tempo, poi Fossati mi chiamò e mi disse che quando la CBS lo chiamava lo trattavano con il tappeto rosso, pronti a qualsiasi cosa per i suoi dischi, ma quando iniziava a parlare di me e di produrre il mio disco facevano tutti orecchio da mercante; stessa cosa se lui telefonava a qualcuno della CBS per parlarne. In pratica Ivano capì che non avevano proprio voglia di fare un mio nuovo disco. A quel punto decisi di orientarmi verso altre situazioni: per un po’ di tempo mi dedicai al teatro, intendo dire come musica di scena, non come recitazione, con un rientro televisivo insieme ad Alberto Radius, Dino D’Autorio e Flaviano Cuffari…
…i Cantautores, con cui hai inciso due album di cover con qualche canzone tua…
Sì, e oltre a quelli che ho citato prima c’erano altri session men di Milano e Roma. Nel frattempo, però continuavo a dedicarmi a sperimentazioni musicali con la voce e con l’elettronica. Così nacquero alcuni dischi particolari come “I SING THE VOICE IMPOSSIBLE”, poi un disco dal vivo, “COVER LIVE”, con mie versioni di classici rock dei Creedence Clearwater Revival, di Janis Joplin, Ray Charles e altri, registrato con il gruppo con cui suonavo. Poi “MASTER POETS”, con canzoni dei grandi cantautori americani, come Tom Waits, Leonard Cohen, Bruce Springsteen, Joni Mitchell, Dylan…
Questo disco lo collegherei a “DYLANZ”…
Sì, che è il mio tributo a Bob Dylan.
Un artista che a prima vista sembra lontano dal prog, e quindi anche dal tuo percorso musicale…
Tutto vero, però a mio avviso Bob Dylan, pur venendo dal mondo folk-rock, con il suo agire esprime veramente una grande ricerca e un’avanguardia. Pensa al 1965: tutti fanno pezzi di due o tre minuti, arriva lui e fa Like a Rolling Stone che ne dura cinque, mandando in crisi tutte le radio perché il disco era al primo posto e loro dovevano trasmetterlo, ma gli faceva saltare tutti i palinsesti. Poi un’altra cosa: Dylan in concerto cambia i testi delle canzoni più famose improvvisandoli in rima, a volte inizia il brano da solo con la chitarra ma in una tonalità diversa e i musicisti si devono adattare a suonare in modo differente da come hanno provato, devono entrare al volo e adattarsi. Per me Dylan si potrebbe definire un jazzista della parola e della poesia: non vuole dimostrare di saper fare le sue canzoni, ma dimostra di fare musica, che è un concetto molto più vasto. Sicuramente è il cantautore più europeo che ci sia negli Stati Uniti: cita Shakespeare o Petrarca e ciò lo rende unico. Il fatto che gli abbiano assegnato il Nobel per la letteratura lo rende un artista completo, degno di chiamarsi con questo nome. E vuole spiazzare chi lo ascolta, non fa quello che ci si aspetta da lui: se vogliono il folk fa il rock, se vogliono il rock fa il country, se vogliono la protesta scrive testi simbolisti, insomma musica non per compiacere il pubblico. Per me è un ascolto in cui, musicalmente, mi allontano dal prog: però non dimentichiamoci che il prog ha bisogno di testi di alto livello, non a caso i King Crimson avevano un paroliere poeta come Pete Sinfield.
Che aveva scritto i testi in inglese per la PFM…
Esattamente. Molti giovani gruppi prog che ascolto, magari musicalmente validi, hanno questa lacuna: non hanno capito che esiste un linguaggio poetico anche nelle parole, non solo nella musica. Tu non puoi scrivere un testo dicendo “Mi sono svegliato e sono andato a Roma”, ma devi esprimere lo stesso concetto in modo poetico, adoperando le parole giuste. In molti casi siamo più avanti dal punto di vista compositivo che da quello dei testi: eppure se ti vai a leggere i testi dei gruppi storici italiani, prendi Le Orme o il Banco del Mutuo Soccorso, ti rendi conto che avevano un alto livello poetico che si accompagnava all’alto livello musicale. Purtroppo, i gruppi prog italiani di oggi quel livello non l’hanno ancora raggiunto.
Ritorniamo alla tua produzione, passando all’ultimo album, “HORIZONTAL RAIN”…
Sì, prima volevo aggiungere ancora una “chicca”: il produttore di quest’ultimo album, ma anche di quello su Bob Dylan, di COVER LIVE e MASTER POETS, era Dario Mazzoli, un musicista che ha suonato per un certo periodo come bassista di Elio e le Storie Tese con il nome d’arte di Scaffale. Poi c’è stato il disco con cui ho celebrato i miei quarant’anni di attività; prima ancora il lavoro con i Mangala Vallis con Gigi Cavalli Cocchi e Cristiano Roversi e il ritorno degli Acqua Fragile (l’album “A NEW CHANT”, del 2017, edito per l’inglese Esoteric Antenna).
Gigi Cavalli Cocchi che troviamo anche in “HORIZONTAL RAIN”…
Gigi è un bravissimo illustratore e grafico, oltre che musicista. Quando gli affidi un lavoro per una copertina sei sicuro che venga realizzato al top, e non è una cosa facile fare una copertina di un album: anche in questo caso ha fatto un ottimo lavoro.
Come è nato il titolo dell’album?
L’ho scelto perché, pur essendo in inglese, è alla portata di tutti: la pioggia orizzontale. Quando capita è una cosa che non ti aspetti: ti chiedi cosa fare e intanto l’acqua ti va in bocca, ti sbatte contro le pareti, ti trovi impreparato. Però devi reagire per poter andare avanti e superare lo shock.
A dire il vero il titolo l’ho deciso un paio di anni fa. Però è anche vero che la pandemia ci ha preso alla sprovvista come una pioggia orizzontale, perché quando si pensava ai pericoli per il mondo si pensava a un’esplosione atomica, all’inquinamento o al crollo delle borse, ma nessuno immaginava un virus piccolissimo che avrebbe colpito tutti.
Nel nuovo album i testi di due canzoni sono stati scritti da Peter Jack Marmot…
Marmot non è un semplice paroliere, io lo definisco un fabbro di parole: lui è stato un coach manager, ci unisce la passione per Bob Dylan. Anzi lui è più di un appassionato: mi ha raccontato che a volte si sveglia di notte chiedendosi cosa avrà voluto dire Dylan in una tal canzone o in un’altra, sveglia la moglie Caroline e glielo chiede. Un giorno ci siamo riproposti di fare qualcosa insieme, e quindi abbiamo scritto una serie di brani per un nostro progetto, ma due di essi erano particolarmente forti, Heck Jack e Genial!, che si pronuncia alla spagnola, “geniàl”, e così li ho inseriti nell’album. Le musiche invece sono tutte mie, così come quasi tutti gli arrangiamenti.
In che senso “quasi tutti”?
Prendiamo Walk away, che apre il disco e che ha delle parti in 6/8 e la struttura centrale che è in 11/8. Quando ho inviato il materiale a Jonathan Mover, il batterista, mi ha detto: “Senti Bernardo, io avrei pensato di fare la batteria a un certo punto in 4/4”, e ho accolto l’idea. Per quanto riguarda Andrea Cervetto, il chitarrista, e la corista australiana, Kim Chandler, che ha cantato nel disco dal vivo degli Uriah Heep e ha suonato il flauto, ho scritto tutte le frasi musicali e loro le hanno eseguite al meglio, aggiungendo però le loro idee.
L’album è stato registrato in molti studi differenti, Los Angeles, Londra, Milano e altri ancora, ma ha comunque un’uniformità a livello sonoro, sembra che i brani siano stati registrati tutti nello stesso studio…
Sì, questo è dovuto un po’ all’esperienza del sottoscritto e un po’ ai tecnici che ogni giorno registrano materiale diverso, e in questo modo continuano a imparare, per cui quando gli chiedi qualcosa sanno benissimo come ottenerla.
Un brano che mi è sembrato interessante è “Lanzhaiku”, in cui la melodia ha dei rimandi alle musiche orientali…
Ti spiego com’è nato questo brano. Qualche anno fa ho avuto la fortuna di incontrare Pete Sinfield, e in quell’occasione avevo notato che si cimentava con questi haiku, dei brevi componimenti di tre versi. Ho quindi pensato di isolare tre frasi con cui fare una strofa. Di solito nel rock, ma anche nella musica leggera, le frasi di una strofa sono pari; in questo caso avendo scritto tre versi, quindi una strofa dispari, ho composto la musica in 3/4, ma per non farlo sembrare un valzer l’ho arrangiata mascherando il tutto. Se lo ascolti alla fine non si capisce che è un tre quarti.
In questo brano c’è un ospite illustre, David Jackson dei Van der Graaf Generator…
Sì, che contribuisce al mascheramento, perché la parte del contrabbasso è suonata dal suo sax baritono. Che poi in quale disco si usa mai il sax baritono? Ho cercato di non utilizzare sonorità scontate, visto che anche la struttura del brano non è scontata.
L’unico testo in italiano è “Ero un numero”…
Che è vagamente palindromo scritto così. È un esperimento che parte dal fatto che i numeri sono nove, a parte lo zero, e che tutti gli altri sono una combinazione di questi nove, e la musica è legata ai numeri, come è evidente pensando ai vari tempi o al valore delle note: 1/4, 1/8, 1/16 e così via: si potrebbe quasi dire che se sai contare sai anche fare musica. Ho scritto una sequenza di numeri che, a mio avviso, riportandoli su un asse e unendo i punti rappresentava quasi la figura di un pesce. Poi ho contattato due musicisti, non faccio nomi, per scrivere la musica: uno mi ha detto subito di no mentre l’altro prima mi ha detto di sì ma poi in fase di realizzazione si è tirato indietro; alla fine ho deciso di scriverla io. Ho utilizzato un’accordatura aperta, “re la re la la re”, e quello è quando dico uno, mentre quando sposto il barré sul primo tasto è due: il testo dice “Uno nove due otto” e segue lo spostamento del dito sui vari tasti, e così procede l’armonia. Questa è la parte della chitarra, poi ho scritto le parti strumentali. È una cosa strana ma funziona, così almeno mi ha detto un mio amico compositore di musica classica. A quel punto ho scritto il testo, e visto che ho giocato coi numeri, il testo parla di un numero: “Ero un numero che non contava”, un numero che nel finale esce dalla sua solitudine per fuggire con una cifra tonda, con un po’ di ironia. Il risultato è un brano sperimentale, però alla portata di tutti: non è fischiettabile, ma non è nemmeno dodecafonico o atonale.
Un altro ospite importante presente nel disco è Tony Levin…
Quando ho fatto sentire a Jonathan Mover Heck Jack, mi ha detto: “Qui ci vorrebbe un basso stick come lo suona Tony Levin”. Io gli ho risposto che era una bella idea, ma che non sapevo come contattarlo. E lui: “Non ti preoccupare, ha detto sì”. In pratica Jonathan l’aveva già contattato per conto suo e glielo aveva chiesto, mi ha messo di fronte al fatto compiuto. Tony aveva tre giorni liberi e ha registrato la sua parte. A quel punto abbiamo aggiunto i fiati veri, chiamando Giancarlo Porro, Carlo Napolitano e Marco Brioschi, al posto di quelli sintetici che erano presenti inizialmente.
Un altro brano che mi è piaciuto molto è “Conventional”, con l’inizio lento con le tastiere e poi l’arpeggio di chitarra classica…
È
un’aria, più che una canzone: è tutta in 7/4 e questo crea una specie di
sospensione, non si appoggia mai, il tempo dispari non ti permette mai di
sederti, stai sempre in movimento. È uno di quei brani di cui vado orgoglioso e
che dimostra che si possono scrivere melodie belle con un tempo che non sia il
solito 4/4. Fare questo tipo di esperimenti è fare prog.
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