lunedì 7 giugno 2021

Fabio Zuffanti intervista Bernardo Lanzetti per la rivista Rolling Stone


A lezione di storia del prog con Bernardo Lanzetti

Il provino per entrare nella PFM, l’avventura americana, le svolte e gli scazzi, le occasioni perse perché i discografici non sapevano l’inglese, il rapporto coi grandi musicisti, il nuovo album ‘Horizontal Rain’

 Di FABIO ZUFFANTI


ARTICOLO ORIGINALE SU ROLLING STONE ITALIA


Bernardo Lanzetti ha attraversato la storia del prog italiano, prima con l’Acqua Fragile e poi con la Premiata Forneria Marconi, apponendo la sua firma vocale in dischi fondamentali quali Chocolate Kings, Jet Lag e Passpartù. Poi la carriera solista, mille altre collaborazioni e ora un nuovo album: Horizontal Rain, sorta di summa del suo percorso artistico. Ne parliamo in un’intervista nella quale non tralascia di svelare aneddoti e inediti particolari del suo rapporto con la PFM.

 


Horizontal Rain è un disco prog alla tua maniera: passatista e futurista allo stesso tempo. Sei d’accordo con questa definizione?

Direi di sì, in realtà è l’unione di due o tre progetti ai quali lavoro da qualche anno, nove brani sotto l’egida di un certo tipo di prog a 360 gradi che ho costruito attorno alla mia sensibilità e alla mia voce. Prog inteso come veicolo per sperimentare forme diverse, alternative, di canzone. La sperimentazione è a mio avviso ciò che unisce tutti gli artisti che si dedicano a questo genere; chi sperimenta attraverso la musica classica, chi attraverso il jazz, la contemporanea…. I più bravi riescono a mischiare il tutto.

Nel disco ci sono 19 musicisti, con tanto di sezione fiati e coro. Spiccano inoltre gli ospiti internazionali.

Sì, c’è Jonathan Mover, batterista che ha suonato con i GTR di Steve Hackett e Steve Howe, con i Marillion, Joe Satriani, Aretha Franklin… Jonathan mi ha sottoposto tutta una serie di idee che hanno contribuito a far funzionare ancora più i brani. Poi c’è Tony Levin che aveva pochi giorni liberi, ma dopo avere ascoltato le canzoni ha deciso immediatamente di lavorarci, una cosa molto bella da parte sua. Tra l’altro le stesse canzoni erano già state suonata da un bassista molto bravo, ma quando Tony vi ha aggiunto il suo stick le ha letteralmente capovolte, incredibile. In seguito, ci siamo incontrati nel camerino durante un concerto dei suoi Stick Men e mi ha offerto un sandwich col salame, scusandosi del misero trattamento a causa di un tour a basso budget (ride). Sul versante degli inglesi ci sono David Cross dei King Crimson e David Jackson dei Van Der Graaf Generator, che con il suo sax baritono ha sostituito il basso in un pezzo.

A proposito degli ultimi due, hai mai avuto occasione di dividere il palco con loro durante gli anni ’70?

In realtà no, anche se nei ’70 sono venuto a contatto con alcuni musicisti dei King Crimson. Dovevo cercare di incontrare Peter Sinfield per chiedergli il permesso di pubblicare il brano con il suo testo. Chiesi a Greg Lake, che in quel periodo frequentavo, il quale mi disse che Sinfield era andato ad abitare fuori Londra e che stava conducendo una vita eremitica a causa di una serie di problemi di depressione, non rispondendo nemmeno più al telefono. Si faceva consegnare ogni giorno tutti i quotidiani e li sparpagliava per terra al fine di trovare ispirazione. Parlando con David Jackson un giorno scopro che questi si è da poco trasferito nella stessa località dove abita Sinfield e che sua figlia, una cantante jazz, ogni tanto va a trovarlo. Così ho fatto in modo di recapitare un CD con il brano a David che lo ha passato a sua figlia. Questa un giorno in macchina con Peter mette il CD senza dirgli nulla e lui rimane piacevolmente stupito di sentire il suo testo in una canzone sconosciuta. Da lì ho ottenuto la sua approvazione. La canzone è Rain Drops ed è uscita in A New Chant, l’album della reunion dell’Acqua Fragile.

Il tuo cammino musicale inizia negli Stati Uniti quando eri ragazzo, un’esperienza che ti ha permesso di imparare l’inglese con il quale ti sei espresso vocalmente in maniera perfetta.

Sì, ebbi modo di passare un periodo negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio, totalmente isolato dalle comunità italo-americane, l’unico contatto che mi rimaneva con l’Italia erano le lettere che mi spediva mia madre. Mi immersi a tal punto che vidi il mio italiano peggiorare di mese in mese a favore dell’inglese. Nella famiglia presso cui stavo c’era un ragazzo che per combinazione faceva il musicista e che in seguito mi avrebbe rivelato diverse verità sul mondo discografico americano, gestito nella quasi totalità da italo-americani. Prince, per dire, aveva tre manager: Ruffolo, Cavallo e Faregnuoli, uno dei capi del colosso Atlantic era tale De Antonio. Gli italo-americani hanno finanziato anche il mercato italiano: Celentano e Mina, per esempio, avrebbero dovuto avere successo anche negli Stati Uniti, ma poi per la loro paura di volare non hanno mai approfittato dell’occasione.

Come fu preso dal pubblico americano Chocolate Kings, con tanto di bandiera a stelle e strisce accartocciata in copertina?

Guarda, io sono entrato nella band tre giorni prima che entrassero in studio a registrare. Mauro Pagani aveva lavorato a tutti i testi tranne uno, Out of the Roundabout, che poi ho scritto io, con Marva Jan Marrow, cantante e poetessa statunitense che spesso ci dava una mano con le parole. La stessa Marrow rivelerà più tardi che alla fine agli americani non interessava che qualcuno dal di fuori venisse a dir loro quali erano i difetti della nazione. Un conto è se lo faceva Bob Dylan, un conto un gruppo europeo, italiano. Non è che si siano arrabbiati, proprio non gli dettero peso. La copertina poi non fu un’idea della band, bensì della Manticore, e noi per contratto non potevamo mettere becco in tali scelte. Io comunque, come ti ripeto, sono arrivato quando già tutto era stato organizzato.

Da lì a poco poi Mauro Pagani abbandonerà soprattutto per ragioni legate al suo crescente impegno politico. Che rapporto avevate?

Io e Mauro vivevamo in una specie di comune, con dentro operai, letterati e artisti. Mauro abitava all’ultimo piano con la moglie. In questa casa ci fu una riunione col gruppo e Pagani comunicò la decisione di abbandonare la band. Rimasi scioccato dal fatto che nessuno spese una parola per fargli cambiare idea. Io del resto all’epoca non avevo un peso politico all’interno del gruppo, ero l’ultimo entrato. Poi la vita fino a quel momento era stata convulsa: avevo debuttato durante un tour giapponese, eravamo stati in Canada, in Inghilterra dove avevamo fatto 19 concerti in 20 città. E le poche volte in cui eravamo a casa io e Mauro non ci mettevamo certo a suonare o a parlare di musica, ogni tanto lui si estraniava, suonava l’armonica con quelli della comune, faceva blues, una delle sue prime passioni, e io non osavo disturbarlo. Era sempre più coinvolto nella politica e disse che se ne andava anche per fare un lavoro legato al gruppo culturale Santa Marta, mise su una sorta di scuola. Una cosa molto idealista, all’epoca le utopie avevano il loro peso.

Mi puoi raccontare la genesi del tuo coinvolgimento nella PFM?

Un giorno di ottobre mi convocarono in una discoteca nella quale dovevano fare un concerto. Al ristorante mi dissero che mi avrebbero voluto come cantante. Era appena uscito Mass Media Stars, il secondo album dell’Acqua Fragile, un disco in cui io credevo molto per il quale la PFM ci aveva promesso una distribuzione all’estero. Per cui io candidamente dissi: «Ah, bello, molto interessante. Datemi una settimana di tempo e vi do una risposta». E loro si offesero. Dopodiché con l’Acqua Fragile andammo in tour proprio di supporto alla PFM. Io ero meravigliato, nessuno parlava più dell’argomento finché venni a sapere che avevano contattato un altro cantante: Ivan Graziani, che all’epoca non era il cantautore che tutti conoscono, era un bravissimo chitarrista, un session man molto richiesto, un ottimo cantante che già suonava per divertimento con Flavio Premoli in un localino in Brera nel quale facevano pezzi dei Beatles. In seguito, capitò che la PFM dovesse fare una singola serata al Rainbow di Londra e lì incontrarono Greg Lake e Pete Sinfield, che gestivano la Manticore, l’etichetta che distribuiva i loro dischi all’estero. I due non furono esaltati da Graziani, secondo loro la band aveva bisogno di una voce più a suo agio con l’inglese, più potente e già avvezza con il prog. Successe così – questa cosa me l’hanno raccontata quindi prendila con il beneficio del dubbio – che al ritorno in albergo, dopo il concerto, Franco Mussida disse agli altri: «Voglio la testa di Bernardo» (ride). Mi mandarono quindi a chiamare per incontrarmi di nuovo e io immaginai che volessero darmi la notizia che Mass Media Stars aveva finalmente trovato una distribuzione internazionale. Così partii da Parma e arrivai a Milano con solo il giubbino e i pantaloni di jeans, la spazzola e i documenti. Venni fatto accomodare nell’ufficio del manager Franco Mamone e mi dissero che volevano essere sicuri che io potessi diventare il loro cantante. Io stupito dissi: «Ma come, tra tre giorni entrate in studio per registrare il nuovo disco dopo avere lavorato sei mesi con Ivan Graziani…?». «Tu non ci pensare», mi rispondono, «devi solo preoccuparti di cantare, debutteremo a Tokyo». Che potevo dire? «Va bene».

Lo step successivo era controllare le tonalità dei brani. Andai a casa di Mussida insieme a Premoli. Da poco Franco e sua moglie erano diventati genitori di due gemelli, e l’appartamento in cui vivevano era piccolo. Franco e Flavio accennarono i brani e nei momenti con le note più alte io le intonai alla mia portata, a un volume considerevole. Loro: «No, fai piano che poi i bambini si svegliano e i vicini protestano!». Che potevo fare? Presi un cuscino dal divano e feci tutto il provino cantando con la faccia schiacciata nel cuscino per ammortizzare il volume. Questa fu la mia audizione. Da quel momento cominciò l’avventura, mi trasferii a Milano e cominciammo a registrare, con la band che impiegava tre giorni per fare la base di un pezzo, mentre io in tre giorni dovetti cantare tutto l’album, comprese le doppie voci (ride).

Come la presero i ragazzi dell’Acqua Fragile?

Non molto bene, pensarono a un tradimento. In quel periodo aveva cominciato a suonare con noi anche Joe Vescovi, proveniente dai Trip, che si incazzò parecchio. In più era ospite a casa mia, ti lascio immaginare. Io però lasciai loro il nome e l’attrezzatura le cui cambiali era state firmate da me. Provarono con un sostituto ma presto si accorsero che mancava il motore che ero io. L’unica cosa che non facevo era guidare il camion, per il resto tenevo i rapporti con la casa discografica, scrivevo i testi, le musiche, gli arrangiamenti, coinvolgevo tutti… avevo fatto molto per l’Acqua Fragile. Per loro quindi non fu facile rimettersi in gioco, poi nel ’75 il prog entrò in crisi, cominciarono a subentrare i cantautori che erano molto più facili da gestire.

Quindi tu debuttasti dal vivo con la PFM non in un posto qualsiasi, ma a Tokyo?

Esatto. Visti i tempi stretti del mio ingresso nel gruppo, la Manticore non fece in tempo a divulgare foto della nuova formazione. Quando arrivammo a Tokyo chiaramente molti non sapevano chi fossi. Lì c’è un’usanza per la quale alla fine del concerto molti spettatori lanciano dei sacchettini di carta con dentro dei piccoli regali come origami, ciondoli… Uno lanciò un fumetto con le caricature e i nomi dei musicisti della PFM, sul mio c’era un punto interrogativo (ride). Comunque, arriviamo, decidiamo la scaletta che poi io avrei dovuto annunciare brano per brano mentre gli altri si accordavano o sistemavano i loro strumenti. Sta di fatto che io a un certo punto annuncio un brano al posto di un altro. Dovrebbe esserci anche una registrazione, un bootleg. Praticamente, si sente Mauro Pagani imprecare, qualcosa tipo «Porc… adesso quel pezzo dove lo mettiamo?». Io mortificato non potei fare altro che seguire la band che andò avanti saltando il pezzo che avevo scordato. Alla fine, andiamo in camerino e Pagani mi fa: «Bella la scaletta senza quel pezzo!».

L’anno successivo, dopo la partenza di Mauro, registraste negli USA Jet Lag, uno dei più tosti album jazz-rock-prog mai pubblicati in Italia. Con quel disco però il sogno americano della PFM sembra allontanarsi.

L’etichetta che lo pubblicò negli Stati Uniti, la Elektra, credeva molto in Jet Lag, ma come spesso accade c’erano diversi giochi di potere. Al presidente piacevamo molto, ai direttori artistici evidentemente no. Nonostante ciò, all’epoca facevamo faville, ai concerti veniva a vederci gente come Jaco Pastorius, i Return to Forever di Chick Corea, i Chicago… tutti a farci i compimenti, alcuni vedevano anche due show… Ma all’epoca non c’era internet, non c’erano i video, per farti conoscere dovevi girare tutti gli Stati Uniti, passare mesi con una diaria settimanale, mentre in Italia avevamo il nostro cachet fisso quando suonavamo. Sta di fatto che a un certo punto mettemmo ai voti se rimanere in America a spaccarci le ossa o tornare a casa. Io e un altro volevamo restare, ma la maggioranza decise di tornare.

Con “Passpartù” le sonorità tornano mediterranee, come andò il lavoro per quel disco?

Lì la band decise di rifondare il suo modo di suonare, facemmo diversi provini da sottoporre a chi si sarebbe dovuto occupare dei testi, per la prima volta un esterno alla band: Gianfranco Manfredi. A un certo punto io mi ammalai e la band continuò a comporre senza di me, quando tornai mi resi conto che i pezzi erano in tonalità non corrette per la mia voce. E non si poté fare nulla. Io rimasi mortificato… alla fine un brano venne tenuto strumentale, un altro lo cantò Mussida e altre cose non furono mai eseguite dal vivo. Mi ricavai però uno spazio in Fantalità, di cui scrissi il testo.

L’atmosfera stava diventando un po’ incandescente, mi sembra di capire.

Più che altro mi sentivo sottoutilizzato. Finivo i concerti e non ero neppure sudato, cominciavo a scaldarmi al terzo bis, quando tutti gli altri erano stanchi e scarichi, compreso il pubblico. Praticamente ero diventato il presentatore della band, annunciavo tutto, i brani cantati e quelli strumentali, poi andavo dietro le quinte ad aspettare che il pezzo finisse. A volte facevo ginnastica per cercare di sudare un po’. All’epoca avevamo aggiunto Roberto Colombo alle tastiere che mi diceva: «Bernardo, non devi sentirti emarginato, tu sei a tutti gli effetti uno della band più importante d’Italia». Poi però, durante l’esperienza con De André fu lui a venire emarginato, quindi mi disse: «Come ti capisco».

Durante il tour con De André tu facevi ancora parte della PFM, anche se chiaramente non partecipasti.

Quando la PFM andò in Sardegna a incontrare Fabrizio io ero con loro. Mentre gli altri parlavano del progetto con lui io mi appartai con suo figlio Cristiano a suonare i pezzi di Crosby, Stills & Nash (ride). Loro poi si imbarcarono in quel progetto e io ne approfittai per pensare a un disco solista, quindi la situazione prese una piega che in qualche modo portò al mio abbandono definitivo.

Con chi di loro legasti di più durante la tua permanenza?

Sicuramente con Flavio Premoli, uno che riesce a esprimersi nella sua totalità con la musica. Una volta in camerino prese in mano un violino, che non aveva mai suonato prima, se lo mise tra le gambe come un violoncello e, senza guardare lo strumento, suonò la melodia di uno dei brani dell’Acqua Fragile. Pazzesco. È in grado di suonare qualsiasi brano e strumento. Era anche il più dotato per il canto, solo che non gli piaceva, non aveva voglia di imparare i testi, per lui era una scocciatura. Questo vale per tutta la band, nessuno all’epoca era interessato a cantare, si esprimevano con gli strumenti.

Paradossalmente dopo la tua uscita il canto diventa invece preponderante nei nuovi dischi del gruppo, come giudichi questa sterzata?

Beh, sai, io ho preso la patente a 50 anni, e per certe cose non ho la dimestichezza di uno che guida da quando ha 18 anni. Lo stesso per la voce, se inizi a cantare dopo i 30 non puoi avere l’esperienza e la confidenza con la postura e la gola, per cantare tutte le sere. A parte questo c’è stato sicuramente un cambio di rotta e le cose che abbiamo fatto insieme non sono quasi più state recuperate dal vivo, anche perché non ce la facevano a riprodurre la mia tonalità.

Facciamo un deciso passo indietro, come era nata l’Acqua Fragile?

Su spinta soprattutto di Pagani e Mussida. Io, il batterista Piero Canavera e il chitarrista Gino Campanini suonavamo in un gruppo che si chiamava Gli Immortali, facevamo cover dei Gentle Giant, di Crosby, Stills & Nash, dei Jethro Tull… A un certo punto ci trovammo a fare da spalla alla PFM degli albori, anche loro dietro a tutta una serie di cover. Io già conoscevo Mauro Pagani che tempo addietro suonava con i Dalton e che era venuto a chiedermi consigli su quale cifra chiedere nei locali. Lui e Franco Mussida ci videro e ci dissero che secondo loro avevamo un potenziale notevole. Siccome avevamo anche due elementi che erano un po’ più grandi, ci chiesero di ringiovanire la band e di contattarli perché si stavano delineando tutta una serie di situazioni interessanti. A quel punto Gino Campanini chiamò due musicisti dal suo ex gruppo I Moschettieri, tastierista e bassista, e andammo a Milano per incontrare il manager Franco Mamone. A quel punto però non avevamo ancora un nome, così ognuno tirò fuori un’idea. Ricordo che ero in Galleria del Corso a Milano e mi venne questa idea di Acqua Fragile, per fortuna a Mamone piacque perché l’idea precedente era di chiamare la band Penthouse (ride).

A quel punto la PFM vi porta alla Numero Uno, l’etichetta di Battisti e Mogol…

Prima Mussida ci fece fare dei provini negli studi della Ricordi, per la quale loro avevano spesso lavorato in passato come session men. Poi ci indirizzarono al produttore Sandro Colombini. Io andai a casa sua e lui mi disse che i testi erano da rifare tutti in italiano, cosa che rifiutai categoricamente. A quel punto subentrò la Numero Uno, con Claudio Fabi alla produzione che già aveva lavorato ai primi due album della PFM. In realtà la Numero Uno non sapeva che noi cantavamo in inglese, un giorno uno dei responsabili venne ad ascoltare le registrazioni sulle quali stavamo lavorando e impallidì. All’epoca i gruppi che non cantavano in italiano erano malvisti, quindi ci spinsero a provare a fare delle versioni italiane dei nostri pezzi. Io a quel punto dissi che potevamo provare a fare un esperimento con un brano per vedere come suonava. Così chiamarono Bruno Lauzi affinché lavorasse al testo. Io stimavo moltissimo Lauzi, ma non ero convinto. Fortunatamente lo stesso Bruno alcuni giorni dopo parlò personalmente con i responsabili della Numero Uno dicendo: «Ragazzi, questa canzone è così bella in inglese, perché la volete rovinare?».

Incontraste anche Lucio Battisti?

Lo vidi solo di sfuggita un giorno, era venuto a fare dei provini in un piccolo studio. Era molto riservato, Mogol in un certo senso gli faceva da scudo.

Accettato il fatto che cantavate in inglese i lavori per il primo album procedettero spediti?

Macché, ai piani alti non si arresero, finite le registrazioni non si sentivano pronti a farlo uscire e fecero una riunione con i venditori, quelli che andavano nei negozi, prima che il disco uscisse, a convincere i negozianti a prenderlo. Il tutto senza preview, trailer o altro, erano questi venditori che dovevano convincerli, a volte inventandosi delle campagne promozionali. Comunque, fecero questa riunione, i venditori ascoltarono il disco e alla fine ci fu un applauso. A loro venne in mente una promozione speciale per i negozianti: per ogni dieci dischi di Lucio Battisti erano obbligati a prenderne anche uno dell’Acqua Fragile. Quindi il nostro disco omonimo uscì e fu presente praticamente ovunque, anche perché nessun negozio poteva esimersi dall’avere gli album di Battisti.

Come andò invece con Mass Media Stars?

Lì le cose mutarono un po’, il direttore artistico era cambiato e andammo incontro ai soliti problemi con l’inglese. Dopo averlo ascoltato, i dirigenti dissero che Mass Media Stars faceva venire il mal di testa. Quindi il disco si bloccò. Qui entrò in gioco Claudio Fabi che ci disse che sarebbe stato utile migrare alla Ricordi, dove era appena approdata anche Mara Maionchi che quindi avrebbe potuto facilitare il passaggio. La Ricordi ci accolse a braccia aperte e… affossò il disco. Ne uscirono 600 copie, il minimo contrattuale, quindi fu praticamente introvabile. In quel periodo entrò Joe Vescovi alle tastiere e avemmo un’occasione con un grande produttore americano: il mitico Seymour Stein, che voleva la band a tutti i costi. Peccato che questo lo seppi anni dopo, tutti i suoi fax che erano arrivati alla Ricordi non erano nemmeno stati letti, perché in quell’ufficio nessuno sapeva l’inglese…

Col senno di poi rifaresti la scelta di abbandonare la tua band per la PFM?

Ci ho pensato spesso, a conti fatti la mia esperienza con loro non è stata preponderante nello svolgimento della loro storia, specie dopo la collaborazione con De André. Da un’altra parte però l’Acqua Fragile a un certo punto aveva solo debiti… sarebbe stata dura. Forse a livello artistico mi posso rimproverare di non avere calcato sufficientemente la mano con la PFM… ma non era facile, c’erano diverse correnti, artistiche e amministrative, nella band e sarebbe stato utile che le due cose fossero andate di pari passo. Se avevi un’idea che poi il management bocciava era un’idea inutile, bisognava sempre trovare un compromesso. A un certo punto dovetti rassegnarmi al fatto che loro, all’epoca, non ritenevano la voce, la vocalità, uno degli aspetti importanti del loro progetto.





 

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